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Il semiologo dei media. Eugeni: «La realtà dell’immagine nell’era digitale»

«La percezione del reale oggi passa per l’algoritmo, occorre focalizzare la responsabilità di chi lo disegna»

«Gli algoritmi sono il frutto di accumulo di business model che li hanno plasmati in un modo anziché in un altro. Per questo non rispondono ad automatismi» ammonisce Ruggero Eugeni, docente di semiotica dei media all’Università Cattolica di Milano e autore di Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno) (Morcelliana, pagine 336, euro 21,00).

Cosa raccontano del mondo di oggi, professore, gli smart glass, le macchine fotografiche a campi di luce, i visori notturni e gli altri dispositivi che prende in esame nel libro?

Essi sono delle macchine algoritmiche che producono immagini. Grazie a loro le immagini oggi non circolano solo nel mondo dei media ma in tanti altri mondi, nel settore militare, nella diagnostica medica, nel mondo della sorveglianza. Per questo li definisco dispositivi postmediali.

Le loro sono immagini diverse da quelle del passato?

Le immagini premoderne e moderne fanno apparire una porzione di mondo. Invece le immagini algoritmiche fanno apparire la visualizzazione di una porzione di dati. Ma a distinguerle c’è dell’altro. Delle immagini fotografiche o cinematografiche si dubitava perché ricreavano solo una parvenza di mondo. Non a caso i critici postmoderni à la Baudrillard parlano di simulacri. Invece le immagini dei dispositivi postmediali restituiscono una realtà affidabile e non una parvenza di cui sospettare. Siamo passati così dalle immagini simulacrali, soggette al sospetto, alle immagini algoritmiche che visualizzano dati e testimoniano fiducia nell’articolazione dei dati stessi e non più nello sguardo in sé. Questa fiducia è evidente nel pilota che si affida a immagini algoritmiche e non allo sguardo per far atterrare l’aereo in condizioni di visibilità complicate.

Intende questo quando parla del passaggio del “mondo che si fa immagine” all’“immagine che si fa mondo”?

Nella storia dell’Occidente, in un primo momento, le immagini consentivano una trascrizione o una razionalizzazione del mondo, grazie al processo di geometrizzazione, preparandone poi la conquista e l’appropriazione da parte dell’uomo. Lo prova lo sviluppo della cartografia che ha permesso i viaggi oceanici e lo sviluppo del capitalismo dimostrando come l’immagine di per sé non sia innocente. Invece nel farsi mondo dell’immagine questa entra nel mondo realizzando un meccanismo di presenza rispetto a chi la osserva. Lo vediamo oggi con gli schermi, i microschermi, i display che ci mettono continuamente in presenza di immagini. Questi sono però due momenti complementari e non opposti perché l’immagine che diventa mondo è possibile solo dopo che il mondo è stato trasformato in immagine, geometrizzato e tradotto in una griglia di dati. Dal modo in cui è stata pensata l’immagine in Occidente nasce la società digitale, sottoposta alla logica degli algoritmi.

Dominata dai loro automatismi, quindi?

Presentare con i tratti della genialità i fenomeni di intelligenza artificiale che dipinge o considerare il rapporto con le macchine algoritmiche, come i robot, su un piano di pariteticità, personalizza le macchine. Questo processo di antropomorfizzazione è evidente parlando di capitalismo della sorveglianza, per esempio, in cui si attribuiscono delle intenzioni e delle responsabilità al sistema in sé. Accettare questa retorica è fuorviante, perché non focalizza l’attenzione sulle responsabilità di chi progetta gli algoritmi. Promuovere il determinismo tecnologico evita di chiedersi chi progetta queste azioni, quali startup, quali aziende istruiscono gli algoritmi a operare in un senso piuttosto che un altro senza cercare delle alternative.

Per esempio…

Promuovere chi utilizza gli algoritmi di geoposizionamento non per tracciare i comportamenti dei consumatori ma per capire dove stanno nascendo delle nuove sacche di povertà. Solo sottraendosi al determinismo tecnologico è possibile individuare i centri di responsabilità.

Perché il titolo Capitale algoritmico ?

L’ho scelto per dialogare con le teorie che propongono delle nuove forme di economia politica e per riaffermare sia la centralità del ruolo dell’immagine nel mondo attuale sia l’incidenza della responsabilità nell’ideazione degli algoritmi che servono alla visualizzazione di dati. Questi algoritmi, se intesi sotto forma di immagini, possono essere considerati delle merci, il cui accumulo è frutto della capitalizzazione di luce e di dati traducibili in impulsi luminosi. Ma questi algoritmi visuali possono anche essere dei dispositivi che regolano la circolazione di luce e dati. Per disciplinare la capitalizzazione i dispositivi devono rispondere a meccanismi di policy. Sottoporre a controllo questa circolazione di risorse è importante perché il mito del liberismo assoluto fa emergere alcuni aspetti, come quello della privacy, che occorre salvaguardare.

Per questo parla di economia politica della luce?

Nella letteratura sul rapporto tra media e società spesso gli aspetti legati al mercato e alla finanza sovrastano gli altri rinunciando a descrivere l’area dell’immateriale e del simbolico. Ridurre tutto al mercato non permette di capire gli aspetti legati, per esempio, all’attenzione, al riconoscimento, alla reputazione. Occorre pertanto costruire una metaeconomia. Solo riconquistando un significato più ampio di economia possiamo moderare l’entusiasmo per l’ecologia e integrarla all’interno dell’economia stessa.

Cioè?

Occorre integrare il discorso sull’ oikos con il nomos dell’oikos , altrimenti ci si arrende all’idea che le risorse circolino liberamente, senza essere regolamentate da istituzioni o dispositivi. È solo la regolamentazione del flusso di risorse a determinare uno spazio condiviso perché le decisioni sul loro prelievo, circolazione, allocazione, smaltimento toccano le sorti di tutti e non riguardano dunque più l’oikos ma la polis, lo spazio pubblico. Ecco perché parlo di economia politica della luce. Infatti i dispositivi visuali che si avvalgono della luce mostrano che il flusso di risorse che governano non necessariamente privilegia il mercato ma un intreccio tra l’economia della luce, l’economia del visuale, l’economia delle informazioni.

Fonte: Simone PaliagaAvvenire.it

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