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Perché non è giusto che Twitter blocchi Trump

I proprietari dei social si comportano come degli editori senza esserlo. Qui sta l’inganno

Sbaglia Giuliano Ferrara a scrivere, in riferimento alla chiusura dell’account di Twitter del presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump, che «negare l’accessibilità a Twitter a chi mette in pericolo la società aperta» non è una censura ma «è un atto di libertà e un privato che lo compie va elogiato», e sbagliano tutti quelli che sono d’accordo con lui. Quel che è veramente sbagliato, è delegare il potere di regolazione del dibattito pubblico alla discrezione di soggetti privati che si sono impadroniti dell’infrastruttura tecnologica che lo veicola nel XXI secolo. Sbagliata è la premessa del discorso, basata sull’“analogia” fra i social media e i giornali, come pure la conclusione: «Una piattaforma come Twitter è un’impresa e una società privata della comunicazione. Anche i giornali lo sono. Twitter ti esclude, i giornali ti escludono, un tuo post è bannato (…), il tuo account è sospeso, questo articolo non si pubblica, questa notizia è falsa o incendiaria (…)». Conclusione: «Fuori di qui, va’ a straparlare su Parler: la libertà di stampa non è pubblicare tutto, tutti i pezzi e tutte le opinioni, ma dare a tutti la possibilità di mettere su un giornale o un’impresa editoriale per esprimere opinioni contrapposte».

L’analogia fra social media e giornali non regge perché Twitter e Facebook non sono imprese editoriali, e anzi hanno lottato come leoni (tramite avvocati e consulenti legali) per non essere classificate e trattate come tali, e ci sono perfettamente riuscite: il comma 230 del Communications Decency Act stabilisce che i social media non sono penalmente e civilmente responsabili per quello che viene pubblicato sulle loro pagine e che allo stesso modo possono rimuovere contenuti a piacere senza nessun obbligo verso gli utenti che hanno sottoscritto le loro “condizioni d’uso”. Questo istituisce una differenza radicale rispetto a giornali e tivù: un giornale o una televisione sono penalmente e civilmente responsabili dei contenuti dei loro articoli e servizi, comitati direttivi e proprietari dei social media no. I direttori e proprietari di Facebook e Twitter dispongono della stessa discrezionalità del direttore di un giornale (rimuovere un post/ rifiutare un articolo) senza però avere le stesse responsabilità: essere citati in giudizio per un contenuto. La legge è evidentemente ingiusta: se non hai le stesse responsabilità del direttore di giornale, non puoi avere gli stessi diritti alla discrezionalità. Il potere senza responsabilità si chiama assolutismo, e si pensava fosse finito con l’avvento delle repubbliche. Nel tempo le leggi negli Usa e in Europa hanno posto dei limiti alla discrezionalità dei social media, ma solo in positivo: i social sono tenuti a rimuovere contenuti coperti da copyright, o inerenti alla tratta di esseri umani, o in base al “diritto all’oblìo” degli utenti, ecc. Ma nessuna legge ha stabilito cosa NON può essere rimosso dai regolatori dei social senza un motivo che abbia a che fare con le leggi vigenti.

Un’altra differenza enorme fra i social media e i giornali è che chi scrive sui secondi viene retribuito per farlo, oppure anche scrive gratuitamente, mentre su Facebook o su Twitter si paga per poter scrivere. Non si paga in denaro, ma con la cessione dei propri dati personali, che sono il tesoro che ha permesso a Mark Zuckerberg e Jack Dorsey di diventare miliardari. Dei 1.900 miliardi di dollari di valore di mercato di Alphabet (l’azienda proprietaria di Google, senza la cui partnership Twitter non sarebbe ciò che è) e di Facebook sommate insieme, 1.400 provengono dai dati degli utenti e da ciò che le due imprese ne fanno commercializzandoli. Noi utenti paghiamo eccome i social media su cui postiamo parole e immagini, e in cambio non abbiamo nessun diritto: i social si arricchiscono grazie a ciò che noi postiamo, nel mentre che si riservano la prerogativa di rendere invisibile, di bloccare, di cancellare quello che abbiamo postato e che loro utilizzano per arricchirsi. Come si chiama questo? Sfruttamento, alienazione, condizione servile. Scegliete voi. Questa situazione rende patetica l’esortazione a trasferirsi su altri social minori se non ci si trova bene su quelli principali. Quando Google, alleato di ferro di Twitter e Facebook, controlla il 90 per cento del mercato della ricerca in linea e quindi anche una quota simile del mercato pubblicitario online, che possibilità hanno i concorrenti? Quando i nostri dati sono già stati fagocitati da Facebook e Twitter che li hanno rivenduti a terzi, che potere abbiamo noi utenti di modificare con le nostre scelte il panorama del dibattito pubblico online? Evidentemente la battaglia politica più importante del decennio appena iniziato sarà quella degli utenti che cercheranno di riappropriarsi dei loro dati personali per farli pesare davvero nei rapporti con le imprese della comunicazione. Una battaglia di importanza storica come le rivolte dei servi della gleba o gli scioperi operai agli albori dell’economia industriale. Per ora i padroni delle ferriere informatiche possono contare sull’ignoranza e la disorganizzazione dei servi che sfruttano, ma non durerà per sempre.

In conclusione: se Donald Trump ha utilizzato i social media per promuovere un’insurrezione e violare la Costituzione americana lo deve stabilire il Congresso degli Stati Uniti, non un monopolista privato che esercita un dominio incontrollato su un’infrastruttura che costituisce un bene della collettività. Mark Zuckerberg ha definito Facebook «la piazza della città»: le condizioni a cui si accede a una piazza, anche quando fosse stata data in gestione a un privato, debbono essere uguali per tutti, trasparenti e non discriminatorie. I social media non hanno il diritto di stabilire “condizioni d’uso” discriminatorie o ideologicamente faziose, perché gestiscono un’infrastruttura di pubblica utilità come una piazza, un’autostrada, una ferrovia, un servizio telefonico.

Nell’ottobre scorso Twitter e Facebook hanno reso non condivisibile un articolo del New York Post che asseriva che grazie alla rivelazione di email contenute nell’hard disk del suo computer, si era scoperto che Hunter Biden si arricchiva facendo da intermediario a chi voleva incontrare suo padre quando era vice presidente di Barack Obama. Un servizio che faceva le pulci a un uomo politico come se ne leggono tanti sui giornali. Ma mentre i servizi del New York Times di due settimane prima con presunte rivelazioni su rimborsi fiscali a Donald Trump, anche queste estratte da materiale informatico, non hanno subito nessun trattamento censorio da parte di Facebook e Twitter, queste che potevano danneggiare il candidato democratico sono state rese invisibili. Comportamenti di questo genere non sono ammissibili da parte di chi gestisce le autostrade della comunicazione digitale del XXI secolo.

 

Fonte: Rodolfo CASADEI | Tempi.it

 

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