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Covid-19. Visite ammesse anche in rianimazione. «Stare accanto ai malati salva la vita»

All’ospedale Cisanello di Pisa, il dottor Malacarne ha deciso di consentire le visite in terapia intensiva anche ai parenti. «La fame d’aria non si può battere da soli»

Il malato che arriva al pronto soccorso dell’ospedale Cisanello di Pisa e riceve la diagnosi di polmonite Covid entra subito in una stanza scura. «Arrivano pieni di paura per una malattia che ha fatto migliaia di morti, consapevoli di dover vivere in solitudine per l’assenza dei familiari» racconta il dottor Paolo Malacarne, 62 anni, anestesista e direttore della Rianimazione del pronto soccorso. «Alcuni di loro passeranno da sofferenze indicibili. Dovranno tenere il casco per 18-20 ore al giorno oppure mettersi in posizione prona sul letto fino a 16 ore al dì. Senza dimenticare che la fame d’aria può arrivare d’un tratto, improvvisamente». È suggestiva e al tempo stesso spietata l’immagine usata dal medico.

 

Qui, al primo piano dell’edificio 31 del Cisanello, confluiscono i pazienti dal quadro clinico più grave. Da metà ottobre il dottor Paolo Malacarne è anche responsabile della ‘bolla’, ricavata dalle sale operatorie e dalla Recovery room del secondo piano dello stesso palazzone rosso mattone. Stanze ora adibite a reparto di terapia intensiva riservata a chi è entrato in contatto con il Covid. Otto posti letto dove, giorno e notte, vita e morte si azzuffano: una lotta da cui, almeno fino ad oggi, la vita è uscita vincitrice, se è vero che dei 30 pazienti entrati in due mesi, nel momento in cui scriviamo, i più – ben 26 – si sono salvati. Accanto al loro, si consuma anche il dramma dei familiari dei malati. «Vedono uscire il proprio caro con l’ambulanza quasi fosse un appestato, accompagnato da persone irriconoscibili per la bardatura che portano; e poi più nessun contatto, nessuna visita, tutto oscuro in attesa della telefonata quotidiana dei medici. Anche il semplice e antico gesto di solidarietà e compassione, quello del fare visita agli ammalati, si è perso nel buio del Covid» osserva l’anestesista toscano.

 

In una condizione di grave disagio prestano servizio anche i sanitari che hanno in cura questi malati che, irriconoscibili, sono disorientati nella ricerca di una relazione di aiuto e di supporto. Il dottor Paolo Malacarne è stato forse il primo direttore di un reparto ospedaliero in Italia, in tempi di pandemia, ad aprire ai familiari le due terapie intensive: nella terapia intensiva ordinaria le visite sono permesse dalle 12.30 a mezz’ora prima della mezzanotte, mentre nella terapia intensiva Covid l’ingresso dei parenti è decisamente più contingentato, riservato ad un massimo di tre persone al giorno e per un massimo di mezz’ora.

Monica Tognarelli è stata una delle prime mogli a poter visitare il marito nella ‘bolla’. «Giuseppe è stato portato in terapia intensiva Covid lo scorso 25 ottobre. Io ho avuto accesso a metà novembre: prima non potevo farlo, anche se avessi voluto, perché dovevo negativizzarmi». Entrare in un reparto Covid richiede pazienza e attenzione. «L’operazione di vestizione è impegnativa. Cuffia, paracapelli e cappuccio, tuta o copriveste lunga, maschera Ffp3, visiera in plastica, tre paia di guanti calzati in tempi successivi». E anche l’operazione di svestizione è particolarmente delicata. «Ma ho trovato intorno a me degli angeli. Per me e per lui stare accanto, anche se solo per pochi minuti, è stato importante. Ci ha restituito la voglia di lottare. Un dono grande».

Anche Sabrina Sarra, insegnante e madre di tre figli, racconta con commozione il superlavoro di medici anestesisti e infermieri della ‘bolla’ dell’ospedale pisano. Suo marito Luciano, un ex pilota di elicottero, «è ricoverato in ospedale dal 18 novembre con diagnosi di polmonite interstiziale, cui hanno fatto seguito una embolia polmonare e una fibrosi polmonare. Alla ‘bolla’ gli han salvato la vita. Merito delle cure da lui ricevute e della sua forza di volontà, alimentata anche dall’affetto che ha potuto sentire durante le nostre visite». Ora Luciano è in pneumologia. Ma il peggio, forse, è passato.

È stato un azzardo accogliere i parenti? Carte alla mano, lo si poteva fare. Ricostruisce sempre il dottore, «ci siamo letti e riletti le indicazioni nazionali ed anche quelle regionali. Ed in particolare un’ordinanza, che permette l’ingresso di parenti di ricoverati particolarmente fragili e vulnerabili. E chi può esserlo più di un malato ricoverato in terapia intensiva? Allo stesso modo, quando abbiamo aperto la ‘bolla’ abbiamo adottato lo stesso criterio di scelta». Poi una confidenza. «Sono state le mie collaboratrici a farmi notare l’incongruenza dell’assenza dei familiari. Genio femminile! Ci siamo detti: se non ci sono ragioni scientifiche valide per tenerli fuori, perché non accoglierli, facendo loro rispettare le stesse precauzioni che adottiamo noi?».

E le stesse precauzioni adotta anche il cappellano ospedaliero don Luca Casarosa, che fa visita ai malati di tutti i reparti degli ospedali pisani dove sono ricoverati pazienti venuti in contatto con il virus. Don Luca ha portato, in questi giorni, dei piccoli presepi. Invitando tutti a «contemplare l’immagine della Sacra famiglia di Nazareth» e confidando «nel Signore Gesù, che non ci lascia soli: dalla Natività troviamo la forza ed il coraggio per affrontare anche le prove più dure, in questa nostra vita fragile e limitata».

Fonte: Andrea Bernardini | Avvenire.it

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