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Ciò che accade non è mai “inutile”: la fine richiama il fine

Secondo il filosofo russo Evgenij Trubeckoj, negli eventi peggiori è il cuore dell’uomo il campo di battaglia, poiché la fine richiama il fine

Ogni benedetta serata sui nostri teleschermi si rincorrono dati sempre più preoccupanti riguardanti la situazione pandemica. Grafici, istogrammi, tabelle e tutto l’armamentario statistico sono mobilitati alla bisogna. Subito dopo, arrivano le interviste a virologi, fisici, esperti e personaggi di spettacolo, che danno giusti consigli e delineano strategie, cercando di fare il punto sulla situazione. Si susseguono poi le interviste a esponenti di partiti politici, inevitabilmente e invariabilmente in contrasto. Tutta questa pur valida ripetizione, censura un punto, il punto: di che si tratta? Cosa comporta? Si può guardare questo evento in profondità?

L’attuale pandemia ha rotto il mito della narcisistica invulnerabilità dell’uomo occidentale, incamminato verso la terra della vita a tutti promessa degli 82 anni di vita per le donne e 80 per gli uomini, ponendoci in una strana sincronia con il tempo dei congolesi che muoiono per Ebola e con i nostri avi morti per febbre spagnola. Senso di spaesamento, di incertezza e inquietudine, dunque, rispetto a un evento catastrofico, che scuote il nostro io. Può esserci d’aiuto il filosofo russo Evgenij N. Trubeckoj (1863-1920), studioso di Kant, Nietzsche e amico di Solov’ëv, che ne Il senso della vita (1918) (in S.L. FrankIl pensiero religioso russo, Vita e Pensiero, Milano 1977) si pone le nostre stesse domande, rispetto ai tempi tremendi e drammatici della rivoluzione russa, indicando una strada.

Per Trubeckoj, innanzitutto, gli eventi catastrofici non sono l’avvento del Nulla, ma del Logos. Tubeckoj intende con il termine Logos la misteriosa, sensata e profonda ragione di tutto, non racchiudibile nel perimetro circoscritto della/dalla ragione mondana. Il crollo delle nostre umane certezze, apre, insomma, una strada inedita e diversa, prima non avvistata: quella dello spirito.

L’uomo, perciò, si trova a dover considerare ciò che non vedeva o nascondeva: la sua esiguità creaturale. E l’urgenza di una risposta mette in campo energie creative nuove: “Proprio nelle epoche catastrofiche il cuore umano dà al mondo il meglio di se stesso, e all’intelletto si dischiudono quei misteri profondi che nelle epoche storiche mediocri le vanità giornaliere nascondono alla mente. Nelle fiamme dell’incendio universale che annienta le forme di vita insenilite, nascono quelle grandi rivelazioni dello Spirito di Dio sulla terra le quali precorrono la comparsa di ‘terre nuove’”.

Il tempo dei sommovimenti è insomma il tempo dell’io. Non il tempo di chi tenta di ridurre la portata del fatto o di anestetizzare il soggetto, consolandolo, ma di chi ascolta la voce ultima dell’Avvenimento. Trubeckoj passa, perciò, in rassegna diversi eventi significativi: la guerra del Peloponneso, la caduta dell’impero romano, le invasioni tartare, ecc. Proprio in quei tempi e di quei tempi, è l’aprirsi di una possibilità nuova, per chi vive intensamente il reale, accogliendo la drammatica provocazione in atto. “Ciò che spinse Socrate a predicare l’immortalità dell’anima non fu la catastrofe sua personale ma la catastrofe nazionale; Socrate assistette allo sfacelo della vita pubblica, al profondissimo decadimento morale della patria, e ne dedusse la missione di tutta la propria vita: contrapporre all’esistenza viziata e vana della città natale una vita diversa superiore, basata sulla conoscenza del divino”.

La bellezza ultraterrena del mondo delle idee si manifestò a Platone in un’età di crisi e vanità. Sant’Agostino ebbe la visione della Città di Dio nei giorni della caduta di Roma e gli orrori dei tartari furono come ribaltati e capovolti dalla luce dell’eroismo di San Sergio. Tutto ciò non mette a lato, né nasconde la sofferenza in atto, la porta anzi al suo punto cruciale e infiammato: il cuore, il proprio cuore. È proprio il cuore dell’uomo il campo di battaglia, poiché la fine richiama il fine. L’opera umile dell’uomo, allora, consiste – per il filosofo russo – nell’accogliere ciò che è decisivo: l’essere fatti a immagine e somiglianza. Ogni giorno, ogni benedetto giorno di un tempo stravolto dalla pandemia, il soggetto, nascostamente, col suo piccolo “sì” può collaborare “all’avvento del Regno di Dio”.

Fonte: Vincenzo Rizzo | IlSussidiario.net

 

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