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STORIE DA MEETING/ La neonatologa: Io, i miei bambini malati e il mistero della vita

Un modo diverso di accompagnare chi è destinato a morire, anche i neonati, senza far loro violenza ma rispettando il corso naturale della vita

Fin dall’inizio degli studi di medicina ho avuto una attrazione per la cura dei neonati. Perché? È quell’epoca della vita dove la promessa è più grande, perché il giorno in cui nasciamo abbiamo tutta la vita davanti; è il punto di apertura più grande, perché da lì tutto può accadere, c’è una promessa che ci aspetta. Ed è anche il punto della vita di dipendenza più grande. Abbiamo bisogno di tutto. Così ho studiato medicina e sono diventata neonatologa.

Con questi sentimenti nel cuore, ho sempre cercato di “salvare la vita” dei bimbi che mi trovavo a curare. Quando mi trovavo di fronte a pazienti che non riuscivo a guarire, mi dicevo: io ho tentato, ma non c’era nulla da fare. Però mi rimaneva l’amaro in bocca.

Così ad un certo punto mi son dovuta porre questa domanda: ma che fare quando un neonato nasce troppo presto per poterlo salvare? o ha una patologia che la medicina non può curare? Ho capito che non potevo e non volevo dire più “non c’è più nulla da fare”. Ho osservato due possibili posizioni. Una, quando i medici continuano a trattare aggressivamente il paziente anche se sanno benissimo che non ce la farà. Così il paziente muore comunque, ma lo si fa soffrire fino alla fine.

L’altra posizione è quando i medici decidono che una certa vita non ha più valore, non è degna di essere vissuta, oppure non ha più uno scopo, e decidono che la vita finisce lì, molto spesso accorciandola, magari negando una nutrizione di base o addirittura usando dei farmaci.

È una posizione che mi convinceva perché rispetta la natura delle cose e delle persone. Inoltre è avventurosa, e anche drammatica, si tratta di seguire il paziente nel suo destino. Si sa da dove si parte ma non si sa dove si arriva; il paziente conduce, anche quando è un neonato. E non ci si può sbagliare mai. E cosi è partita l’avventura una quindicina di anni fa.

Attualmente il mio programma è parte integrale della Columbia University Medical Center, ma è finanziariamente indipendente, il che vuol dire che chi lavora nel mio programma lo decido io. Questo è molto importante perché il nostro programma è speciale. Noi offriamo presenza per la famiglia in quello che definiamo il “Perinatal Journey”, cioè cure continuative per la famiglia dal momento della diagnosi fino al parto, alle cure postnatali del bimbo e poi seguiamo le famiglie magari per anni dopo che il bimbo è deceduto. Inoltre, noi nutriamo questi bimbi, perché vogliamo che questi bimbi godano la loro breve vita, ed il nutrimento è una delle poche gioie per un neonato. Inoltre in questo modo rispettiamo la lunghezza naturale della vita.

Dove vogliamo arrivare? Vorremmo che questo approccio sia praticato in tutto il mondo, per tutte le famiglie con bimbi con questi problemi gravissimi. Per questo ci siamo lanciati sull’educazione. In tutti questi anni abbiamo organizzato corsi di medicina perinatale palliativa per medici e infermiere a livello nazionale e internazionale. Anche il Covid non ci può fermare, infatti stiamo lavorando sul lancio di un corso permanente via video, accreditato per l’educazione di medici e infermiere.

Questi bimbi, con le loro brevi ma preziose vite, mi hanno insegnato due grandi cose. Uno, che posso perseguire la promessa di poter curare i miei pazienti rispettando il mistero della loro vita. Due, che tutto è dato, incluso le persone che sono venute a lavorare con me seguendo il fascino di questo lavoro e i finanziamenti per pagare i loro stipendi.

Fonte: Elvira Parravicini | IlSussidiario.net

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