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Dati Invalsi, è nell’infanzia che famiglie e contesto dividono l’Italia

L’Invalsi ha presentato i risultati della sperimentazione Rav infanzia. Una indagine sperimentale che aiuta a capire le distanze socioculturali presenti nel paese

Fin dai primi test Pisa, Oecd sostiene che, fra gli elementi strutturali dei sistemi educativi che permettono agli allievi il raggiungimento dei più alti livelli di prestazioni cognitive agli allievi, va senza dubbio annoverata la frequenza di istituzioni in vari modi formative nella fascia di età fra i 3 ed i 6 anni. Tanto è vero che la Germania, traumatizzata dal suo basso livello in classifica, nel primo decennio degli anni 2000 ha messo in piedi un robusto sistema di scuole dell’infanzia fin lì piuttosto limitato.

Il caso italiano sembra però non rientrare in questa ipotesi esplicativa. Dei risultati del nostro sistema scolastico sappiamo tutti. Ancora una volta bisognerebbe in proposito precisare che parlare di esiti del sistema scolastico italiano si rivela costantemente inesatto, poiché Nord e Sud continuano a mostrare divaricazioni superiori a quelle di ogni altro sistema, ivi compreso quelle spagnole fra Paesi Baschi ed Andalusia-Estremadura.

E tuttavia gli stessi dati Oecd ci dicono che le iscrizioni dei bambini italiani superano il 90% – le frequenze si sa sono altra cosa, per una serie varia di fattori – e che la diffusione delle scuole dell’infanzia è capillare, anche perché di tipologia molto varia fra statali, comunali, private parificate e private tout court. Si arriva secondo i dati ufficiali a circa 14mila istituzioni su circa 27mila sedi.

Dati che è possibile ricavare da quella che può essere considerata come la prima fotografia di questo universo, grazie alla sperimentazione Invalsi del Rapporto di autovalutazione per la scuola dell’infanzia (Rav infanzia). I cui risultati hanno presentato Michela Freddano e Cristina Stringher con il webinar del 15 luglio che ha registrato, come gli altri precedentemente organizzati, un numero di partecipanti fra Zoom e Youtube molto ampio.

Va chiamata sperimentazione perché il Servizio nazionale di valutazione non ha fin dall’inizio ricompreso questo segmento, peraltro non obbligatorio. Forse anche perché, se nel nostro paese è difficile fare accettare la valutazione agli insegnanti, questo problema è tanto maggiore per un settore che non pone al centro l’aspetto cognitivo, pur avendo superato la funzione meramente assistenziale. Tuttavia la presidente Invalsi Ajello nelle conclusioni ha centrato il punto ricordando che, se è vero che una valutazione hard è da escludere anche perché ci si trova di fronte ad un’età in continua evoluzione, tuttavia non si può parlare solo di “benessere” perché la funzione formativa è cruciale proprio in questa fascia di età. In effetti sembra proprio che sia lì che si formano le distanze, pesantemente condizionate dal livello socioculturale delle famiglie. Di questa battaglia contro quello che viene da alcuni filoni di pensiero considerato un cognitivo troppo precoce abbiamo del resto avuto testimonianza nell’opposizione vittoriosa all’anticipo a 5 anni della scuola dell’obbligo. In questa sperimentazione però non si parla di valutazione degli esiti e l’attenzione è volta ai processi e agli elementi di clima e di contesto.

La sperimentazione del Rav per la scuola dell’infanzia è durata fin dal 2015 attraversando diverse fasi, oltre che per le ragioni sopraddette, anche per la polverizzazione degli istituti. Nella presentazione è stata molto sottolineata la positività di essere riusciti ad ottenere un ampio coinvolgimento delle organizzazioni impegnate in questo campo. Anche la partecipazione delle scuole è stata alta, poiché alle più di 400 scuole campionate se ne sono aggiunte molte volontarie, fino a raggiungere il numero di 1700 circa e quasi tutte hanno portato a termine il loro lavoro. Il format che ne è uscito e stato approvato da più dell’80% delle scuole coinvolte.

Ma la risposta alla domanda iniziale la si può forse trovare nella parte del Rapporto che registra un’altissima autovalutazione del proprio operato – più dell’80% delle scuole si colloca ai più alti livelli – a fronte di basse percentuali di partecipazione alla formazione sugli aspetti core del proprio operato didattico e ad una quasi assenza di strumenti condivisi di registrazione delle ricadute delle attività realizzate. Tanto che è risultato evidente che è questo il terreno su cui in futuro legislatori ed amministratori dovranno insieme ai docenti impegnarsi

Una nota a margine: nella presentazione è apparsa la viceministra Ascani che ha parlato a proposito di Invalsi di lavoro prezioso, di inversione della narrazione (negativa) sulla valutazione e del bisogno di una fotografia attendibile della scuola. Oltre che del bisogno assoluto di riaprire questo pezzo di scuola che certo non ha potuto godere dei benefici della Dad. Una boccata d’aria.

Fonte:Tiziana Pedrizzi | IlSussidiario.net

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