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Il Ponte di Genova e l’Italia del Covid-19. Un metodo dopo la follia

Il metodo e la follia. Già, oggi che il nuovo Ponte di Genova è stato completato, in attesa dell’inaugurazione di luglio, possiamo dirlo: ci può essere del metodo nella “follia” di voler fare presto e bene nel Paese dei lacci e dei lacciuoli, dei mariuoli e degli azzeccagarbugli, delle paludi burocratiche e delle voragini della corruzione. Non è un modello, Genova, come tanti si affrettano a dire in queste ore, ma un metodo di lavoro. Un metodo caparbio, ostinato, efficace pure all’epoca del coronavirus. Sembrava davvero una follia immaginare tutto questo. Ma non era stato folle forse, prima, veder crollare il Morandi in una giornata estiva, tra le urla disperate di chi guardava da lontano? Una sequenza incredibile di errori, omissioni, denunce inascoltate. Nessuno pensava allora alla ricostruzione. Per rispetto dei 43 morti, della rabbia delle famiglie, del dolore degli sfollati. Nessuno sorvolerà, ora e ancora, sulle responsabilità di chi doveva vigilare e non l’ha fatto, in un’Italia che resta fragile dal punto di vista infrastrutturale, come dimostrano i recenti crolli di ponti in Liguria e Sardegna, per fortuna senza altre vittime. Ciò che è successo dopo, però, racconta qualcosa di inedito. Avremmo potuto sfinirci in una polemica al calor bianco sui colpevoli e invece, una volta assegnato questo compito (come giusto) all’esclusiva competenza della magistratura, siamo riusciti a concentrarci su altro e abbiamo dato il meglio. Il vizio italico delle chiacchiere e delle promesse non mantenute si è trasformato in virtù.

Com’è stato possibile? Va detto che, a un’opera eccezionale, ha corrisposto una situazione eccezionale: l’impegno comune degli enti locali, mai così coesi e determinati nel rispondere all’unisono all’urgenza, la visione, la generosità e insieme la capacità di fare squadra del meglio del made in Italy, nei suoi uomini più carismatici e nelle sue imprese migliori; il lavoro 24 ore su 24 ore, 365 giorni all’anno, di centinaia di progettisti, ingegneri, capocantieri, operai; la disponibilità della popolazione locale nell’accettare grandi sacrifici, che non sono ancora finiti. Anche lo Stato centrale ha fatto la sua parte. Aver azzerato la burocrazia, vero fantasma che incombe su ogni prodotto del genio nazionale, capace di soffocare qualsiasi cosa, è stata un’intuizione fondamentale. Di solito accadeva altrove, stavolta è successo in Italia. Pieni poteri e fiducia a sindaci, imprenditori, manager non in nome del sacro profitto ma di uno stesso obiettivo. Era accaduto un’altra volta, cinque anni fa: anche allora il governo diede fiducia a una Milano che sembrava bloccata da inchieste e ritardi nei lavori per l’Expo e, dopo aver individuato gli uomini giusti, trasformò un evento partito tra mille dubbi in una straordinaria vetrina per il Paese. In entrambi i casi, protagonisti del rilancio sono stati due primi cittadini, Marco Bucci a Genova (già in carica al tempo del crollo) e Giuseppe Sala a Milano (che diventò sindaco l’anno seguente). Storie e schieramenti diversi, ma entrambi hanno saputo unire pragmatismo e determinazione, in un quadro di regole e di deroghe fondamentali per raggiungere il traguardo. Non è dunque un miracolo o un modello, quello cui abbiamo assistito.

È la rivincita di un metodo, quello del “rammendo”, proposto da personalità laiche come Renzo Piano e da esponenti di primo piano della Chiesa come il cardinale Gualtiero Bassetti. Il “rammendo” è arte che richiede precisione e delicatezza, chiarezza di idee e generosità, e riguarda sia il nostro grande patrimonio infrastrutturale che la nostra rete di relazioni sociali. Si può ricucire l’Italia partendo da un ponte, ma lo si può fare anche entrando nella vita di una periferia o di un quartiere dimenticato. Basta sapere cosa fare e dove intervenire, basta muoversi con passione, determinazione e tempestività: prima, cioè, che un problema si faccia più grande.

A Genova, come è stato per Milano, non ha contato solo la grandezza dell’opera e la sua magnificenza. Ha contato il fatto che un’idea nuova, fatta in memoria di chi ha perso la vita e nel rispetto di chi ancora chiede giustizia, abbia mosso gli spiriti migliori del Paese, dando il segnale che ci voleva in uno dei più duri momenti della storia repubblicana.

Mentre ci si arrovella su Fase 1, Fase 2 e Fase 3, mentre ci si chiede quando mai sarà possibile uscire dalla pandemia da Covid-19, forse possiamo riconoscere di aver trovato un metodo (dopo la follia). È la via buona della corresponsabilità, dell’ascolto del territorio, del lavoro senza troppe polemiche. Sappiamo farlo, da ieri non è più una sorpresa.

Fonte: Avvenire.it

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