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«Certi terroristi non possono essere “deradicalizzati”. Vanno neutralizzati»

Il sociologo Frank Furedi si scaglia, da sinistra, contro l’illusione di “salvare” i jihadisti come l’accoltellatore di Londra, entrato in azione subito dopo essere stato scarcerato

L’attentato di Sudesh Amman, il 20enne estremista islamico che domenica 2 febbraio ha accoltellato due sconosciuti a Streatham, Londra, fortunatamente non ha fatto vittime (a parte lo stesso Amman, ucciso dalla polizia), ma ha riacceso il dibattito nel Regno Unito su come fare fronte efficacemente alla minaccia del terrorismo in uno stato di diritto.

Dichiarato dall’Isis «un nostro combattente», Amman infatti era stato scarcerato soltanto pochi giorni prima di prendere il coltello e assalire i suoi ignoti “nemici”. In prigione ci era finito nel dicembre 2018 in seguito a una condanna, guarda caso, per possesso e diffusione di materiale terroristico. Dei 3 anni e 4 mesi di pena comminatagli, ne aveva scontati solo la metà. Per fortuna almeno era pedinato, cosa che ha consentito ad alcuni agenti in borghese di intervenire quasi immediatamente e impedire ad Amman di fare una strage.

TERZO ATTACCO IN POCHI MESI

Tuttavia era inevitabile che scoppiasse la polemica, perché l’attentato di Sudesh Amman è stato addirittura il terzo in pochi mesi a essere perpetrato da un fondamentalista islamico condannato per terrorismo. A fine novembre 2019 Usman Khan, già dichiarato colpevole di aver pianificato un attentato nel 2012, ha ucciso due persone nei pressi del London Bridge, ferendone altre tre, prima di essere disarmato da civili e abbattuto dalla polizia. Anche lui aveva scontato solo metà della pena.

Un mese fa, poi, il 24enne Brusthom Ziamani ha ferito alcune guardie del penitenziario di Whitemoor, dove era rinchiuso sempre per terrorismo (aveva pianificato attentati nel 2015). Infine la settimana scorsa è stata la volta di Amman. Tutti e tre i terroristi hanno usato coltelli per portare a termine i loro piani; tutti e tre erano per lo Stato soggetti da “deradicalizzare” attraverso incontri con esperti e psicologi.

IL FALLIMENTO DELLA RIABILITAZIONE

Nei giorni scorsi, dopo l’attentato di Streatham, il governo britannico e lo stesso primo ministro Boris Johnson hanno annunciato l’intenzione di rivedere il sistema dei benefici automatici che ha permesso a Usman Khan e Sudesh Amman di uscire di cella anzitempo. Il premier in realtà già da tempo lo criticava, così come criticava e critica i progetti per la deradicalizzazione e la riabilitazione dei jihadisti e degli estremisti islamici. «I casi di successo sono davvero molto pochi, bisogna essere franchi su questo», è tornato a dire Johnson lunedì scorso.

Quella sulla “conversione” dei terroristi è una disputa che prosegue da tempo anche in Francia, dove il fallimento dei centri di deradicalizzazione voluti da François Hollande è evidente. E il tema torna fuori periodicamente ogni volta che si parla dei foreign fighters che desiderano rientrare in Europa dopo aver combattuto nelle file delle milizie islamiste in Medio Oriente e in Siria in particolare. La grande domanda, in estrema sintesi, è la seguente: al cospetto di fanatici pronti a morire per la loro idea, quali armi di persuasione restano – a parte la repressione – a una società che nel nome della laicità di fatto ha rinunciato a qualunque pensiero forte?

UN TIPO PERICOLOSO

Istituzioni e forze dell’ordine sapevano che Sudesh Amman era davvero pericoloso e che le sue intenzioni erano serie. Era sinceramente attratto dall’idea del martirio jihadista: aveva un’autentica «fascinazione per la morte nel nome del terrorismo». «C’erano preoccupazioni quando era in prigione, ma nessuna autorità aveva il potere di trattenerlo dietro le sbarre», ha detto al Guardian una fonte del governo di Londra.

Per di più – come dimostra proprio il caso di Amman, fermato molto rapidamente, ma comunque dopo essere riuscito entrato in azione, nonostante fosse pedinato – è davvero difficile intercettare in anticipo attacchi perpetrati con armi “banali” come coltelli. Diventa dunque urgente interrogarsi sull’efficacia degli strumenti di punizione e riabilitazione in mano ai governi. Si è messo a farlo, da sinistra, molto da sinistra, la rivista online Spiked, fondata e animata da giornalisti e intellettuali britannici di scuola marxista (Partito comunista rivoluzionario), spesso capace pubblicare idee politicamente molto scorrette.

GLI INFLUENCER DELL’ISIS

Osserva Nikita Malik, esperta di terrorismo, direttore del Centre on Radicalisation and Terror della Henry Jackson Society, in un’intervista concessa a Spiked:

«[Sudesh Amman] alla fine è stato condannato, ma ha avuto agio di credere per lungo tempo a un’ideologia estremista e violenta. Condivideva migliaia di messaggi a favore dello Stato islamico con membri della sua famiglia, incoraggiava la sua ragazza a decapitare i suoi genitori in quanto infedeli.

La sentenza che gli è stata inflitta era in fin dei conti una pena abbastanza breve, appena tre anni e quattro mesi. Questo è uno dei problemi che affrontiamo in questi casi: nel Regno Unito non abbiamo reati per chi crede nell’estremismo violento, a differenza degli Stati Uniti.

La nostra legislazione non copre nemmeno l’influenza di queste persone. Sudesh Amman era un influencer. Molti come lui mirano a radicalizzare altre persone. Un altro esempio è l’anonimo RXG, il più giovane terrorista condannato del Regno. Anche lui era un influencer. Ha provato a convincere qualcuno in Australia a compiere un attentato durante la parata dell’Anzac Day».

«NON SONO DEGLI INGENUI»

Tra i fattori che spingono gli uomini come Amman nel terrorismo, spiega la Malik, ci sono storie familiari di radicalizzazione e violenza, ma poi c’è la «sofisticata macchina di propaganda dell’Isis» che promuove l’idea della superiorità dell’islam e dell’islamismo, autorizza la violenza, promette schiave sessuali.

«Mi demoralizzo quando la gente dice che le reclute dell’Isis sono degli ingenui. È sbagliato. Quelle persone sapevano cosa facevano».

IL CARCERE GENERA MOSTRI

Si spinge anche oltre, in un commento apparso sempre su Spiked, il sociologo Frank Furedi, secondo il quale Amman, una volta vistosi scarcerare già a metà della pena, «deve aver riso dell’ingenuità del sistema giudiziario britannico, che gli ha reso così facile sfogare la sua furia omicida a Streatham».

Scrive Furedi:

«Oggi è ampiamente riconosciuto che i condannati per terrorismo raramente si deradicalizzano in prigione. Se mai, chi sta in carcere ha molta più probabilità di finire nell’orbita dei detenuti jihadisti irriducibili che non di adottare una visione del mondo tollerante e democratica. È evidente anche che i programmi ufficiali di deradicalizzazione sono inefficaci. Questa gente ha abbracciato con zelo la concezione jihadista. È chiaro che qualche sessione di consulenza non basta a fargli cambiare idea».

Secondo Furedi, «certi islamisti non si possono salvare». Più che tentare di deradicalizzarli, «bisogna neutralizzarli». Certo, è una parola per un paese democratico fondato sullo stato di diritto, ma la diagnosi del sociologo è difficilmente confutabile.

MOTIVAZIONI PRECISE

I programmi di deradicalizzazione, scrive, «vanno sospesi», visto che non si sa se funzionino ed è lecito dubitare perfino del fato che abbiano un senso tout court. Il malinteso che sta alla loro origine è la convinzione errata che «gli aspiranti terroristi siano persone “vulnerabili” che sono state “adescate” da jihadisti carismatici». Invece i vari Sudesh Amman e Usman Khan hanno precise «motivazioni politiche, intellettuali e sociali» che non si possono ignorare.

«Trattiamo il terrorismo quasi come un problema di tutela dei minori. Le autorità avvertono che alcuni cinici trafficoni vanno in cerca di giovani facilmente impressionabili online, nei campus, nei centri sociali. […] È un sintomo di disorientamento politico il fatto che i responsabili della sicurezza usino un linguaggio da tribunale dei minori per parlare del processo attraverso il quale i giovani decidono di mettersi a uccidere i loro concittadini».

L’ORA DEL REALISMO

Continuando a trattare i terroristi come poveri ingenui e persone vulnerabili, «non saremo mai in grado di contenere la minaccia che rappresentano», sostiene Furedi.

«È assai più corretto concepire i Sudesh Amman di questo mondo come individui che hanno fatto una scelta e hanno deciso di dichiarare guerra alla loro stessa comunità. […] La difficoltà incontrata dai vari governi nell’affrontare il terrorismo domestico è comprensibile. È difficile accettare che tanti giovani musulmani abbiano scelto di rifiutare la società britannica. È persino più difficile riconoscere che alcuni di loro abbiano passato la riga del sostegno alla violenza. Ma è ora che prevalga un certo grado di maturità e realismo. […] Dobbiamo anche comprendere che alcune di queste persone faranno qualunque cosa in loro potere per gettarci nel terrore, e che non possono essere salvate, né curate o deradicalizzate. Questi individui non vanno deradicalizzati, vanno neutralizzati».

Fonte: Tempi.it

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