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Benedetta Barzini: «Le rughe non contano, la vecchiaia è un dono»

L’ex-modella ha reinventato la sua vita oltre la bellezza: «Dopo i 50 anni capisci che il tempo è prezioso. Le donne rifatte mi suscitano tenerezza, dovremmo farci amare per quello che siamo e non per come appariamo»

Due genitori illustri, il giornalista Luigi Barzini e Giannalisa Gianzana Feltrinelli, ma affettivamente distanti e inaccudenti, un’adolescenza raminga e poi, grazie al dono della bellezza, una carriera fulminante nella moda negli anni Sessanta, prima top model italiana a finire sulla copertina di Vogue.

Benedetta Barzini ha avuto il grande merito di essersi saputa continuamente reinventare la vita, senza puntare sulla bellezza ma perseguendo valori e battaglie forti. Incurante dell’aspetto estetico, con il volto orgogliosamente solcato dalle rughe e i capelli grigi, a 75 anni continua a posare per campagne di moda. Nel 2018 è stata insignita del Premio Victoria, riconoscimento che viene dato da Procter & Gamble alle donne over 50 che hanno avuto il coraggio di reinventarsi e liberarsi dai diktat degli stereotipi, riscrivendo la propria vita, al centro anche del film “La scomparsa di mia madre”,  girato dal figlio Beniamino Barrese.

Come ha accolto la vittoria del premio Victoria? 

«Avrei preferito che andasse a tutte le donne selezionate. Al posto della competizione è più interessante che tra le donne ci sia solidarietà, o per usare un bellissimo termine, sorellanza».

Lei ha dichiarato di aver cominciato a capire la vita a 50 anni. Che cosa le è scattato dentro a quell’età?

«Prima di quell’età pensi di avere tanto tempo davanti, anche per rimediare agli errori. Poi cominci a capire che il tempo è prezioso, che ogni giorno conta. Nel processo di maturazione si diventa più selettivi, rallentano i ritmi, si comincia ri‰ettere, a osservare i dettagli».

Come è stato tornare a posare per un fotografo?

«Fare la modella è come andare a cavallo: anche se è tanto tempo che non lo fai scopri di essere sempre capace. Io cerco di mettere in primo piano l’oggetto da mostrare, non me stessa, senza trucco, ricorrendo a un’espressione non forzata ma un po’ ironica».

Ha insegnato moda all’università. Che cosa cercava di comunicare nelle sue lezioni?

«Ho insegnato al Politecnico e al Naba di Milano e a Urbino. Il mio obiettivo era far capire che la storia dell’abito è legata alle altre discipline: antropologia, sociologia, arte, economia».

Lei ha militato nel movimento femminista. Crede che abbia ancora senso oggi il femminismo?

«Negli anni Settanta ho lavorato nell’Udi, Unione donne italiane, coordinavo il programma dei corsi delle 150 ore per le donne lavoratrici. Quel lavoro, per me che non avevo neppure finito le superiori, è stata la mia università. E credo che ci sia ancora bisogno di femminismo, perché migliaia di anni di silenzio non si cancellano in un lampo. Per esempio, le donne non possiedono un cognome proprio: anche quello da nubili lo ereditano dal padre, secondo una trasmissione tutta al maschile. Agli uomini viene negata la sensibilità, a un bambino che piange si dice che si comporta come una femminuccia. E così alle donne ancora troppo spesso è negata l’intelligenza».

Come ha cresciuto i suoi quattro figli?

«Di sicuro, al contrario di quello che hanno fatto i miei genitori con me, li ho molto amati, li ho allattati al seno fino ai tre anni, e poi ho lasciato la casa aperta, affinché ci fossero sempre i loro amici».

Che pensa della chirurgia estetica?

«Le donne rifatte mi fanno una tenerezza immensa, vorrei poterle aiutare a pensare ad altri valori. E poi è triste vedere l’angoscia delle donne, la loro insicurezza, sfruttate dai medici».

Che rapporto ha con le sue rughe?

«Non ci bado, mi lavo la faccia e neanche mi guardo allo specchio. Ho lasciato che la natura scrivesse sul mio volto. Il tempo ti modifica, ma chi se ne frega, nessuno vuole essere amato perché è bello ma perché è una persona».

Suo figlio Beniamino Barrese ha girato su di lei il documentario Storia di B. La scomparsa di mia madre. Di che cosa si tratta?

«Mio figlio ha sempre avuto un grande amore per me. E ho quindi accettato di farmi riprendere in questa storia, in cui una madre vorrebbe scomparire e non apparire, disprezza l’utilizzo dell’immagine. È stata l’unica pellicola italiana presentata al Sundance film festival (la rassegna di cinema indipendente che si tiene a Park City, nell’Utah, Stati Uniti, e che ha come promotore e mecenate Robert Redford, ndr). Mi sono prestata, perché se non lo avessi fatto sarebbe stato come dire che non avevo stima del suo lavoro, e quindi ho vinto la mia ritrosia. E rinunciare alle proprie prerogative per amore è tipico delle donne».

Fonte: FamigliaCristiana.it

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