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Inverno demografico: l’Italia non fa figli ma una soluzione c’è…

Il demografo Alessandro Rosina a In Terris: “A rischio la futura forza lavoro. Serve un approccio nuovo”

nverno demografico, uguale calo drastico della forza lavoro da qui a dieci anni. E’ un quadro inquietante quello tracciato dalla ricerca congiunta del demografo Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, e Mirko Altimari, docente di Diritto del lavoro della facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: in Italia, la denatalità non è solo un fattore in grado di determinare l’invecchiamento del nostro Paese ma anche una variabile che, a breve termine, rischia di assestare un duro colpo al nostro sistema produttivo. Assottigliare la fascia infantile, significa precludere alle nuove generazioni la possibilità di assolvere al compito di avvicendarsi con quelle precedenti. E il dato è impietoso: da qui a dieci anni, la fascia più produttiva, quella tra i 40 e i 44 anni, si ridurrà di almeno un milione di persone. “Serve un approccio nuovo – ha spiegato a In Terris il professor Rosina – che faccia capire come le politiche familiari debbano entrare in sistema con politiche di sviluppo del Paese”.

 

Dott. Rosina, la vostra ricerca ha messo in evidenza, una volta di più, forse l’urgenza più impellente per il nostro Paese, costretto a fare i conti con un inverno demografico che non mette un freno solo alle nascite ma che, a lungo andare, finisce per influire anche su altri aspetti della società…
“Dal punto di vista delle dinamiche demografiche, la persistente denatalità passata che caratterizza il nostro Paese fa sì che l’Italia sia uno degli Stati con struttura demografica più squilibrata al mondo. In particolare con una popolazione anziana che continua a crescere – anche se questo si inserisce nell’aumento della longevità e quindi può essere considerato anche un fatto positivo –. Quello che va a inasprire quegli squilibri è proprio l’effetto della denatalità, che riduce la consistenza delle nuove generazioni: prima meno bambini, poi meno giovani e, infine, ripercussioni sull’età adulta che è al centro della vita produttiva e questa è la fase che stiamo vivendo ora. Quello che il report mette in luce è che dopo aver ridotto, come conseguenza della denatalità, la fascia infantile e quella giovanile, ora ci troviamo di fronte alla riduzione della fascia che produce ricchezza, benessere e che consente la crescita del Paese e la sostenibilità del sistema di welfare pubblico. E questo è ancora più importante in un Paese con un enorme debito pubblico. La risposta a questi problemi viene messa in crisi dal fatto che stiamo andando verso la riduzione della popolazione che, invece, può produrre questa crescita e quindi promuovere lo sviluppo del Paese. E anche ridurre l’impatto del debito pubblico”.

Conseguenze a breve termine?
“Ci troviamo a indebolire questo pilastro centrale dell’economia e della società italiana. Dovremmo quindi capire quali azioni mettere in campo, alla luce del fatto che la riduzione quantitativa dovuta alla denatalità passata è un dato di fatto, e che le previsioni dicono che nei prossimi dieci anni la fascia tra i 40 e i 44 anni, quella più produttiva, perderà oltre un lavoratore su cinque”.

L’avvicendamento dell’esecutivo è avvenuto a ridosso della Manovra ma non è la prima volta che si parla di misure di sostegno alle famiglie e ai servizi per l’infanzia… Si tratta di provvedimenti estemporanei o alla lunga potrebbero portare dei risultati?
“C’è una questione fondamentale: il governo si è trovato a gestire una Manovra avendo avuto poco tempo per poterla organizzare, tra l’altro con la necessità di fare in modo che non scattasse l’aumento dell’Iva. Questo, unito alle limitate risorse – destinate perlopiù a sopperire a questa emergenza –, ha fatto sì che non ci sia stato abbastanza margine per rafforzare quelle misure che mancano da troppo tempo al Paese nelle politiche familiari, intese come politiche di sviluppo del Paese perché le conseguenze dei loro problemi abbiamo visto come abbiano ricadute sociali ed economiche. Quindi non è sufficiente la logica finora adottata dell’aiuto alle famiglie con le risorse che si riescono a ottenere: le politiche familiari vanno pensate come parte integrante di quelle che mirano allo sviluppo, andando quindi a migliorare la condizione abitativa e occupazionale dei giovani, per far sì che conquistino una propria autonomia e formino una propria famiglia. Se persistono i limiti su questo punto, continueremo a essere il Paese in cui l’età media del primo figlio è la più alta in Europa. Questo fa capire il legame fra le scelte familiari e le condizioni che i giovani trovano. C’è poi un altro nodo…”

Quale?
“Quello dell’occupazione femminile e della fecondità. Un nodo che il Paese continua ad avere per l’assenza di politiche di conciliazione, che consentano alle donne che lavorano di avere figli e a coloro che li hanno di poter lavorare. Se vengono a mancare queste politiche, connesse anche ai servizi per l’infanzia non solo come copertura ma come effettiva accessibilità, legate anche ai welfare aziendali (part-time volontario), e anche quelle che favoriscono un maggior contributo maschile, vuol dire restare indietro rispetto agli standard richiesti. E questa maggior carenza delle politiche di conciliazione fa sì che non solo sia più bassa la fecondità ma anche l’occupazione femminile. E il rischio è che chi ha figli rinunci al lavoro, trovandosi in difficoltà economica e aumentando la povertà infantile. Questo fa capire come politiche familiari e dell’occupazione, povertà e disuguaglianze siano connesse fra loro”.

E sul piano del sostegno? C’è modo e maniera di supportare concretamente le famiglie italiane nella scelta di avere dei figli?
“Il terzo punto riguarda proprio il contributo economico alle famiglie, riconoscendo come il figlio non sia solo un costo privato per i genitori ma un bene collettivo su cui tutta la società dovrebbe contribuire, anche come segnale concreto. Altrimenti, se le famiglie percepiscono la genitorialità come un costo gravante esclusivamente su di loro c’è il rischio alla tendenza di limitare nel numero il fare figli o a ritardare in attesa di condizioni economiche accettabili. Anche in questo l’Italia è molto fragile perché le famiglie che superano il secondo figlio si trovano a rischio povertà molto di più rispetto alle altre. E, di conseguenza, la povertà infantile è tra le più alte in Europa. Questo fa capire che la carenza di politiche familiari non è solo questione di natalità bassa ma è legata anche ad altre condizioni”.

Il piano d’azione, quindi, si traduce in un necessario ripensamento del valore delle politiche familiari…
Serve un approccio nuovo, che faccia capire come le politiche familiari debbano entrare in sistema con politiche di sviluppo del Paese che mettano al centro le famiglie, le persone e la capacità di poter realizzare i propri progetti di vita, tra le quali avere un figlio senza peggiorare le proprie condizioni economiche in maniera eccessiva e offrirgli delle prospettive, anche di servizi educativi di qualità. C’è bisogno di una visione che aiuti anche a favorire un salto culturale, che faccia intendere il figlio come un bene collettivo sul quale tutta la società può investire e costruire un futuro più solido sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Quindi, le condizioni minime perché questa Manovra non sia una replica sbiadita delle precedenti è che quantomeno le misure inserite non siano estemporanee, slegate fra loro e non integrate a tutto il resto, entrando invece in un disegno che consenta alle famiglie di essere progressivamente rafforzate. In sostanza, serve che i nuclei familiari vedano queste misure come l’inizio di un processo, in modo che anno dopo anno possa migliorare le loro condizioni. E aggiungo un’altra cosa…”

Prego…
“Le famiglie devono anche percepire che ci sia un monitoraggio continuo dell’efficacia di queste politiche, con la capacità di far convergere il Paese su indicatori chiave rispetto alla media europea: aumento della fecondità, copertura dei servizi per l’infanzia, accessibilità, tassi di occupazione femminile… Dobbiamo sbloccare il Paese dalle posizioni più basse in Europa attraverso un sistema che si rafforza progressivamente e che consenta di migliorare. Non ci può essere l’idea che con questa Manovra di colpo le cose cambino ma che si ponga alla base di un progetto di cambiamento, questo sì”.

Alla luce di esperienze come quella del Trentino-Alto Adige, l’Italia ha dimostrato come il welfare dei cittadini possa essere risollevato attraverso mirate intersezioni fra politiche familiari e di sviluppo… A livello più ampio, l’Europa potrebbe giocare un ruolo di supporto che non sia esclusivamente di vigilanza e austerity?
“Assolutamente. Dobbiamo pensare a un’Europa che non sia solo legata a parametri finanziari ma che sia punto di riferimento e investimento per aiutare i Paesi membri a migliorare le condizioni dei propri cittadini, con scelte, indicazioni e investimenti che facciano capire in che modo i progetti di vita delle persone possano essere realizzati al meglio. La direttiva europea sui congedi di paternità va in questa direzione. Ricordiamoci che l’Europa aveva fissato il raggiungimento della soglia del 33% per la copertura dei servizi per l’infanzia. In Italia siamo dieci punti più in basso, con forti differenze all’interno del territorio. Dall’Europa ci sono delle indicazioni, conseguenza anche delle esperienze funzionanti in altri Paesi che, però, non dobbiamo semplicemente copiare ma declinare in base alle nostre specificità culturali, in modo che producano risultati”.

Fonte: InTerris.it

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