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Il Mahmood che non ti aspetti: tra fede cattolica e coro a messa
— 19 Febbraio 2019— pubblicato da Redazione. —
Il fatto che il padre ha origini egiziane non deve trarre in inganno: c’è un lato cristiano nel vincitore del Festival di Sanremo. Di cui spicca una profonda serenità interiore
Il Festival di Sanremo l’ha vinto davvero, la canzone “Soldi” è la più ascoltata della settimana e il suo disco “Gioventù bruciata” ha già migliaia di richieste.
Così adesso Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, non può fare più di tre passi di fila nel suo quartiere Gratosoglio, periferia meridionale di Milano. Ma è tutto tranne che un problema: a divo non si atteggia neanche ora che ne avrebbe diritto.
Il resto lo fa un carattere mite, con un sorriso malinconico stampato in viso e gli occhi dolci, così lo descrive La Repubblica (18 febbraio) in un reportage insieme al cantautore che ha trionfato a Sanremo.
«Sono e resto la persona semplice e normale di prima – dice Mahmood – Ma ho capito che qui sono diventato l’eroe per chi vede in me il simbolo del possibile riscatto sociale: anche abitando in un posto come questo si può avere successo, non si è condannati a una vita triste».
San Barnaba
Tra i luoghi simboli di quel quartiere, per Alessandro Mahmood ce n’è uno speciale: la chiesa di San Barnaba.
Pur non praticante, Mahmood è cattolico, battezzato, cresimato, con esperienze nel coro a messa («l’unico maschietto in mezzo alle donne»).
Quando lo incontra per strada, la signora Anna Cervo, la sua catechista, sorride: «Era fantastico già all’oratorio».
Di questo giovane 26enne milanese a tutti gli effetti, colpisce la serenità, che non è lo sforzo estremo di chi deve tenere i piedi per terra per non volare chissà dove.
La scuola multietnica
«Davvero, non ho capito le polemiche intorno a me – osserva – Sono nato alla clinica “Mangiagalli”, dove partoriscono i milanesi, e la scuola che ho frequentato era già multietnica 20 anni fa: in classe avevo cinesi, rumeni, algerini. Milano per me è la città del mondo, io e i miei coetanei non badiamo neppure all’etnia».
Certo, il papà è egiziano, nota La Repubblica, «ma è andato via che avevo 6 anni – replica Mahmood – al Cairo sono stato due volte e ricordo un quartiere poverissimo, coi bimbi scalzi eppure pieni di gioia. Però mamma è sarda e a casa parliamo in sassarese. In più avendo fatto il Linguistico , so anche spagnolo (da Dio), francese (ahia) e inglese (decente). L’arabo poco, ma approfondirò».
Non è difficile intuire, dunque, che il cantante ha un rapporto speciale con la madre. «Devo tutto a mamma. All’inizio, mi accompagnava lei dal maestro di musica, partendo da Buccinasco, dove lavorava, e portandomi a Baggio. Ogni giorno, un viaggio. Mi ha fatto da madre e da padre».
L’omosessualità
Di Mahmood ha fatto molto discutere anche la partecipazione ad un concerto al Pride Village di Padova nel 2016 e un’intervista al portale gay.it. «Io non ho mai detto di essere gay – sottolinea – La mia è una generazione che non rileva differenze se hai la pelle di un certo colore o se ami qualcuno di un sesso o di un altro. Io sono fidanzato, ma troverei poco educata la domanda se ho una fidanzata o un fidanzato. Specificare significa già creare una distinzione» (Corriere della Sera, 17 febbraio).
Una visione che non combacia propriamente con quella della stessa Chiesa da cui ha ricevuto i sacramenti. Se da un lato le sue parole si incanalano bene con il rispetto nei confronti di chi fa oggi coming out (basti pensare al “Chi sono io per giudicare” di Papa Francesco o al supporto della Chiesa alle Pastorali omosessuali), dall’altro il giovane cantante, con le sue parole, spalanca le porte in modo superficiale al “love is love“, cavallo di battaglia di un mondo omosessuale che ha preteso di normalizzare le unioni civili e le adozioni. Un mondo assai distante dai valori cristiani che gli sono stati inculcati quando era più giovane.
“C’è una Chiesa nascosta, silenziosa, che vive nel dolore e che nessuno comprende se non chi è accomunato dalla stessa sofferenza della perdita prematura di un figlio. Ma occorre sempre chinarsi sul dolore e così ho pensato di dare vita ad un piccolo gruppo per sperimentare la bellezza dello stare insieme, che lenisce la solitudine”….
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