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Alessandro D’AVENIA – 44. InstaGraal

All’improvviso il mare si placò e il vento che spirava furioso cadde in un silenzio anomalo. Le vele si afflosciarono e l’immobilità si riempì di una cantilena dolcissima. Solo Ulisse poteva sentirla grazie allo stratagemma che Circe gli aveva svelato per non farsi stregare dalle Sirene: orecchie libere ma legato all’albero maestro. I suoi compagni remavano a perdifiato, resi sordi dalla cera, nonostante il loro capitano urlasse di fermarsi e liberarlo, fuori di sé, lui, il più saggio degli eroi. Ricorderete tutti il fascino dei versi omerici dedicati alle Sirene, ma liberateli dall’immaginario corrente. Nel mondo greco erano uccelli rapaci con il volto di donna, esseri tutt’altro che attraenti, ma con una abilità canora capace di ipnotizzare, il cui potere seduttivo dipendeva soprattutto dal tema del canto. Le Sirene affermano di essere onniscienti: sanno tutto ciò che accade sulla terra, come le Muse, e in particolare ciò che è accaduto nella città di Troia. Stanno promettendo di raccontare la guerra di Troia proprio a chi, per troppo tempo, l’ha combattuta e cerca di tornare a casa. Che razza di seduzione è questa? Perché mai vorrebbe ascoltarle a tutti i costi, proprio chi ha già vissuto tutto in prima persona? Per un motivo vitale: per sapere se le sue gesta sono entrate nel racconto epico, che significa essere diventato immortale.

Nel mondo greco la verità è aletheia, ciò che non rimane nascosto, e non viene quindi dimenticato. La verità è ciò che viene alla luce, si impone nell’evidenza e viene conservato. Per l’eroe greco due erano i modi di diventare «verità» e non sparire nell’oblio della morte: avere una tomba riconoscibile e entrare nel racconto. La Memoria era la strategia per sconfiggere la grande nemica, la morte. La memoria delle sue opere è ciò che fa vivere per sempre un uomo, perché neutralizza lo scorrere del tempo. A partire dalla fiducia nella memoria come ciò che mantiene vivi, la Grecia antica ha costruito la sua grandezza. Non è certo un caso se le Muse, dee ispiratrici di arti e saperi, siano figlie di Memoria e Zeus.

E oggi la memoria ci garantisce di restare «vivi»? L’uomo è costantemente alla ricerca della vita che non muore, ogni nostro gesto è dettato da questa molla, che chiamiamo ricerca della felicità. Il legame tra memoria e vita che i Greci hanno intuito e ritualizzato ci aiuta a scandagliare il presente. Come funziona la memoria dalle nostre parti? Delle tombe, perno di tutte le culture del passato, a noi non interessa più molto, ma non è venuto meno il culto dei morti, necessario ad aggregare, oggi come allora, i componenti di una società. Per un anniversario tutti si profondono in elogi, sui giornali escono i consueti pezzi di «rito». Pensate al «fuoco memoriale» per il ventennale della morte di De Andrè, la scorsa settimana, bruciato in rapide e vivide fiammate. Un’intensità che mostra sia il bisogno di ricordare chi siamo, sia l’insufficienza di un rituale – spesso fine a se stesso – che è la versione profana e immateriale del memoriale celebrato attorno alla tomba. Ma c’è altro.

Avrete sicuramente sentito parlare della #tenyearschallenge, l’ultima sfida social lanciata su Instagram: condividere una nostra foto di dieci anni fa confrontandola con l’immagine di oggi. Probabilmente anche voi avrete ceduto alla tentazione, dal momento che l’idea ha avuto immediato e globale successo. Le star, i vip, e di conseguenza milioni di altri utenti, hanno postato una galleria infinita di immagini a doppia finestra 2009-2019, un «prima» e «dopo» quasi mai impietoso, anzi, sempre glorioso, nel quale la scelta accurata delle foto «vintage» migliori era essenziale per vincere questa gara a un solo concorrente: se stessi. In questo non c’è niente di male. Con le dovute differenze, come ai tempi di Ulisse, noi siamo convinti di essere vivi quando ce l’abbiamo fatta e le nostre gesta entrano nel racconto, imponendosi come «evidenti»: semplice e memorabile «verità». Per noi vincere la morte è avere successo, riconoscimento, visibilità, superarsi, essere sempre più belli, non mostrare mai una ruga, dentro e fuori: bere dal Graal dell’eterna giovinezza. E tutti gli altri? Sono infelici? Sfortunati? Morti che camminano? I social hanno la capacità — se noi glie lo consentiamo — di dividerci rapidamente in «vincenti» o «perdenti», così come in «verità» e «seguaci di queste verità»: la memoria oggi non è orientata a conservare il passato perché è risultato, alla prova del tempo, valido e quindi vitale per il presente, ma a moltiplicare il presente all’ennesima potenza che incanta, ammalia, seduce e che si dispone, come le Sirene, a ripeterti quanto vali. È un incantesimo efficace, che si nutre del bisogno profondo dell’uomo di autoaffermarsi e avere una vita più grande, ma che si risolve in una grande illusione. Anche io ci sono dentro e a volte riesco a riconoscerlo, a volte mi lascio sedurre. Ci accade come Ulisse: sappiamo che la vita è a Itaca, ma è dolce bere dalla coppa divina dell’immortalità ed entrare nella bolla in cui non esiste più dolore, fatica, sconfitta…

Volevo partecipare alla sfida, perché tutto sommato mi sembrava divertente, ma poi mi sono guardato intorno con più attenzione. Ho pensato agli adolescenti che dieci anni fa erano dei bambini felici e adesso si sentono esseri confusi e troppo brutti per essere al mondo. A tutti i trentenni che dieci anni fa si laureavano e oggi si arrabattano ancora per uno stage. Alle giovani coppie che hanno avuto un figlio e lottano ogni santo giorno per compaginare casa, lavoro, spese… A quelli che in questi dieci anni di crisi hanno perso il lavoro e sono rimasti a casa o ne hanno iniziato uno che magari li umilia. A quelli che si sono presi una malattia grave e la stanno combattendo, o hanno smesso di farlo. A tutti gli anziani soli per cui questi dieci anni sono stati solo una tortura. Oppure semplicemente a tutti quelli che hanno continuato a fare la vita di prima, senza sussulti, né traguardi, se non quelli ordinari di portare avanti un lavoro e una famiglia con dignità, non certo minore di chi ha avuto grandi successi. Non è la trita distinzione “cattivo chi ha successo” contro «buono chi ha sfortuna». Il becero bipolarismo dialettico dominante: vittima – boia, destra – sinistra, dentro – fuori, mi ha stufato fino alla nausea, perché riduce la realtà a un’astrazione mentale e scarnifica le persone, sostituite dalle loro appartenenze reali o presunte o dalle loro performance. Un sistema binario: o sei 0 o sei 1. Invece tutti meritano di poter raccontare, sia che si tratti di successi che di insuccessi, perché la dignità dell’essere umano sta nell’esserci e nel poter dare senso pieno a tutto ciò che gli accade. Non ci sono persone 0 e persone 1 in base al meccanismo prestazionale che misura i risultati, veri o presunti, che raggiungono, ma persone la cui vita, evidente o meno che sia, ha la stessa dignità di tutti coloro che occupano i nostri palinsesti mentali e culturali.

La nostra cultura fa un uso della memoria che in qualche modo umilia la persona che non emerge. Quando mi chiedono che cosa io pensi del crocifisso in classe, rispondo: è sbagliato, ce ne dovrebbero essere due! Infatti accanto alla croce di Cristo c’era quella di un poveraccio che, dopo averlo riconosciuto come innocente e giusto, gli chiese: «Ricordati di me quando sarai nel tuo regno». È un assassino, che si riconosce giustamente condannato, a chiedere «di essere ricordato», un solo ricordo buono gli basterebbe. E si sente rispondere: «Oggi sarai con me in paradiso». Un solo gesto di affetto di un assassino rivolto, in extremis, a un uomo innocente, si trasforma in salvezza. «Essere ricordati» da Dio e «essere in paradiso» sono la stessa cosa: per me è una consapevolezza luminosa e decisiva. L’unica Memoria che conta, di cui la nostra è solo un’approssimazione, è infatti quella eterna di chi conosce tutti i gesti quotidiani dell’uomo, e fa sì che nessuno di questi, neanche il più nascosto, si perda, ma venga pesato per la quantità di amore, non di successo, che contiene. Lo stesso Ulisse, passando accanto all’isola delle Sirene, si rese conto che non era altro che una scogliera coperta di ossa di uomini, che avevano subito la seduzione del nulla. Solo Itaca era qualcosa. Solo Itaca, con i suoi limiti e affetti, era reale.

Il letto da rifare oggi è allora considerare davvero questi ultimi dieci anni, mettendo un attimo da parte trofei, vittorie, risultati, e scrivere sotto una nostra foto, orgogliosamente ordinaria e casuale, una didascalia con tutto quello che ci ha fatto crescere nella capacità di ricevere e dare amore. Solo questo resterà di dieci anni e ci dirà, molto oltre il nostro aspetto, se stiamo invecchiando bene, cioè maturando. Immaginate un social in cui allora apparirebbero tutte quelle storie silenziose che conosciamo: un marito che ha accudito la moglie con l’Alzheimer, una ragazza che ha combattuto il tumore senza perdersi d’animo, un padre che si è rialzato dopo un fallimento professionale, una madre che ha accettato di ridimensionare la carriera per il bene di una figlia che aveva bisogno di maggiori attenzioni… Mi piacerebbe guardare in questo Instagram di Dio, in cui solo l’Amore viene ricordato per sempre, e pubblicato. Vedremmo le cose come stanno. La verità, finalmente.

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