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FILM – A PRIVATE WAR | La storia di Marie Colvin
— 22 Novembre 2018— pubblicato da Redazione. —
Una guerra non si può spiegare, si può solo raccontare. Il racconto non è soltanto scrivere quale aereo bombardi o quale coalizione sia in vantaggio, ma trasmettere il dolore di chi vive la guerra ai lettori o ai telespettatori estranei a cosa significhi affrontare quell’orrore.
Sono storie “disperate e inconsolabili” di famiglie distrutte da una violenza indicibile, di vite umane in una condizione estrema di sofferenza che non possiamo minimamente immaginare. Se scegli di raccontare la guerra, devi viverla. La pensava così Marie Colvin, la leggendaria reporter morta a 56 anni in Siria sotto un’offensiva dell’esercito locale.
La Colvin, ha vissuto così intensamente la guerra che ne ha subito i traumi fisici e psicologici. Di fronte a quella che è una figura iconica, Matthew Heineman porta nelle sale un biopic di gran valore raccontando la vera storia della giornalista del Sunday Times.
“A Private War” è una pellicola di forte impatto; è come se Marie Colvin rivivesse per tutti i 110 minuti del film e ci raccontasse ancora quelle terribili brutture che ha denunciato per tutta la vita. Il film uscirà il 22 Novembre, in contemporanea con il libro “Confesso che sono stata uccisa – A private war” scritto da Paul Conroy. L’autore del libro è un il noto fotografo, collega e amico di Marie Colvin.
Heineman con la sua pellicola afferma di voler fare un omaggio alla figura eroica di Marie Colvin e al giornalismo “vero”, quanto mai come ora minacciato dalla disinformazione. Il regista sceglie di raccontare all’incirca gli ultimi dieci anni di vita della protagonista. Per farlo nella massima fedeltà ha ricostruito sotto ogni aspetto quel periodo della Colvin, con l’aiuto delle persone vicine a Marie e dello stesso Conroy.
Il film inizia subito mettendo in risalto la determinazione della potragonista, quando istruisce una nuova arrivata in redazione e rifiuta i consigli del suo direttore. Sean Ryan cerca di convincere Marie a non andare in Sri Lanka, ma è immediatamente evidente che niente ferma la giornalista e il suo istinto di raccontare la guerra. Se avesse ascoltato il direttore, molto probabilmente avrebbe vissuto con entrambi gli occhi. Ma era una “ferita di guerra” ed è valsa a qualcosa, cioè a parlare con i rivoluzionari e a conoscere i crimini di una tragedia ignorata.
La perdita dell’occhio mano a mano si sommerà ad altre ferite, invisibili, incurabili, che sfiniranno Marie. Nel frattempo con l’ostinazione di sempre continua l’altalena tra Londra e un paese in guerra. La macchina da presa di Heinemann è attenta a ogni spostamento, segue Colvin ovunque, tra le bombe, negli ospedali, in redazione, a cena con gli amici, a letto e anche nel sonno.
Il racconto della storia Di Marie Colvin diventa a 360 gradi. Durante l’esperienza in Afghanistan alcuni anni dopo la perdita dell’occhio conosce Conroy, fotografo che la accompagnerà in tutte le altre spedizioni. L’occasione in cui i due si conoscono è uno straordinario aneddoto che la narrazione del film racconta con molto pathos.
Quelle immagini, però, che allo spettatore del film resteranno nella mente per poco tempo, non liberavano mai la testa di Marie. Heineman è molto bravo a raccontare la fragilità psicologica di una donna monumentale. La Colvin attraversa un periodo della sua vita in una clinica di cura; non sta bene, beve perché si plachino i ricordi sanguinosi e le urla strazianti nella sua testa. Ma Marie non è pazza. E’ la stessa Marie che è stata la prima ad intervistare il colonnello Gheddafi e sarà una delle ultime a farlo alcuni anni dopo. Per questo uscirà dalla clinica, perché è ancora determinata e, come ha detto Heineman, la guerra era il suo “rifugio”; forse anche l’unica medicina a quell’esistenza tormentata dalle immagini cruente impresse nella mente: l’unico luogo in cui quelle immagini sono realtà.
Si capisce, dunque, il carattere della Colvin, che nonostante avesse perso un occhio e fosse dilaniata dal passato fu una degli ultimi giornalisti occidentali a rimanere in Siria durante la Primavera Araba. Quello che stava accadendo nello lo scontro tra le forze dei ribelli e quelle di Assad era qualcosa di mai visto prima. Migliaia di civili uccisi e persone a morire di fame, la Colvin con affianco Conroy darà un’ultima indimenticabile testimonianza sulla brutalità di quel conflitto, poco prima di rimanere vittima di un bombardamento.
La pellicola regala momenti di forte emozione nel ricordo di una figura eccezionale. Non era, in ogni caso, facile per Heineman realizzare questo film, a partire dal cast. Ad interpretare Colvin e Conroy sono Rosamund Pike e Jamie Dornan. La Pike veste a pennello i panni di Marie. Afferma di essersi abbassata un centimetro e mezzo sul set e di aver fatto di tutto per simulare la voce muscolosa e rauca della giornalista. L’attrice, di fatto, riesce a far trasparire il carattere coraggioso e sensibile di una donna straordinaria, che piange sul campo di guerra, è disperata in solitudine ma sa ancora innamorarsi, come accade con Tony, interpretato da Stanley Tucci. Anche Dornan si esprime bene nel personaggio di Conroy e nel suo rapporto con la Colvin. Ha avuto il vantaggio di poter conoscere intensamente il fotografo che è stato presente sul set del film quasi tutti i giorni, sia a Londra che in Giordania. Non era facile neanche rappresentare tutti gli scenari di guerra, la Giordania è stato il luogo in cui Heineman e la sua equipe hanno ricostruito “lo Sri Lanka, l’Iraq, la Libia, l’Aghanistan, la Siria”. Afferma Heineam “con Bob [Richardson] e Sophie [Becher], ho cercato di mostrare la guerra in maniera onesta, per come si possa fare in un film narrativo. Eravamo sul set cinematografico quindi non lo descriverei come straziante, ma stavamo tentando di ricreare quella sensazione, come se ci fosse davvero la guerra”.
Questo tentativo è riuscito, la pellicola è estremamente coinvolgente e, attraverso il leggendario personaggio di Marie Colvin, ci invita a riflettere sulla sofferenza umana provocata dalla guerra. Heinaman, del resto, chiarisce così il suo intento: “Il film non è solo un omaggio al giornalismo ma anche un omaggio alla tragedia di ciò che sta accadendo in Siria. Il film finisce a Homs, dove Marie è morta , mentre cercava di riferire gli orrori che il regime di al-Assad stava commettendo sul suo popolo. E’ così tragico e toccante che da allora questa situazione si sia solo aggravata. Assad sta ancora bombardando il suo stesso popolo e oltre 500.000 mila civili innocenti sono stati uccisi dall’inizio della rivolta. Queste sono le persone per cui Marie ha combattuto. Spero che questo film possa aiutare a portare avanti questa impresa”.
“C’è una Chiesa nascosta, silenziosa, che vive nel dolore e che nessuno comprende se non chi è accomunato dalla stessa sofferenza della perdita prematura di un figlio. Ma occorre sempre chinarsi sul dolore e così ho pensato di dare vita ad un piccolo gruppo per sperimentare la bellezza dello stare insieme, che lenisce la solitudine”….
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