Philip Jenkins è uno storico che ama guardare al presente. Occupandosi di religione e, in particolare, del legame tra fede e demografia, è abituato a ragionare sul lungo periodo, ma proprio per questo riesce a cogliere i minimi movimenti che si nascondono sotto le increspature della cronaca. «La realtà – osserva lo studioso, ospite tra i più attesi all’ormai imminente Meeting di Rimini – è che molto spesso, quando si parla di religione, si sta parlando di qualco-s’altro: dell’appartenenza etnica, per esempio. Ma la questione centrale resta la paura del cambiamento».

Una decina d’anni fa, nell’ormai classico Il Dio d’Europa, Jenkins aveva messo in guardia dal rischio della presunta equivalenza tra i processi migratori e l’avanzata dell’islam. «Questo succedeva prima del 2011, prima delle crisi in Siria e in Libano – sottolinea –. Le mie previsioni di allora, che suggerivano una stima al ribasso rispetto alla crescita della popolazione musulmana in Europa, sono state superate dall’attuale prospettiva di arrivi in massa, troppo rapidi e improvvisi per permettere un’effettiva integrazione. Da qui i timori per un nuovo, inatteso assetto sociale».

Dobbiamo prepararci a uno scontro su base religiosa?

«Lo ripeto: in molti casi le religioni diventano un simbolo sul piano culturale o, meglio, identitario. È difficile che, quando se la prende con i musulmani, un europeo abbia in mente una rivalità di natura teologica. Più semplicemente si sta riferendo a persone provenienti da Paesi nei quali l’islam gode una posizione maggioritaria o addirittura esclusiva. In alcune città inglesi, per esempio, gli abitanti distinguono tra “musulmani” e “bianchi”. Bianchi, non cristiani».

È così anche negli Stati Uniti?

«No, negli Usa il dibattito sull’immigrazione riguarda gli stessi cristiani, nella fattispecie i latinoamericani, in prevalenza cattolici ma con una minoranza protestante. Certo, anche in America sono diffusi sentimenti di sospetto verso i musulmani, che pure rappresentano una percentuale molto modesta della popolazione, vicina all’1%. Gli arabo-americani, in sostanza, sono a loro volta cristiani. Perfino la propaganda populista non agita più di tanto la difesa del cristianesimo, se non come strumento di resistenza alla secolarizzazione. Ma il risultato è che il cosiddetto Muslim Ban del presidente Trump ha portato al respingimento di molti profughi di fede cristiana».

Muri contro ponti: l’alternativa è ancora questa?

«Complicata da un paradosso, di cui l’Europa è la rappresentazione più chiara: per sopravvivere abbiamo bisogno di ponti, ma le trasformazioni che ne derivano sono talmente imponenti da far sorgere il desiderio di muri. Pensiamo ai cambiamenti demografici. A partire dagli anni Settanta le società europee sono diventate sempre meno fertili e nello stesso periodo l’età media si è alzata, anche grazie ai progressi della medicina: oggi un terzo degli italiani ha più di 55 anni, mentre in Nigeria la stessa quota non va oltre il 7%. A queste condizioni è del tutto evidente che la sostenibilità delle società europee richieda un robusto afflusso di migranti provenienti da Paesi più prolifici. La divisione tra giovani e vecchi (che ha avuto un ruolo determinante nel dibattito sulla Brexit) si pone anche su base etnica e non di rado religiosa, provocando una conflittualità endemica».

C’è chi parla di estinzione dell’Europa.

«Sì, è un argomento molto sfruttato da un certo tipo di letteratura apocalittica. Già Günter Grass si interrogava sulla fine del tedeschi, adesso si insiste sull’immagine di un’Europa sommersa da uno sciame inarrestabile di migranti. All’inizio questi timori avevano una forte intonazione razzista, ma con il tempo l’incubo ha assunto una connotazione religiosa: l’Europa cristiana, si dice, sta per essere rimpiazzata dall’Eurabia islamica. Viviamo in un mondo che vuole proteggersi con muri dietro i quali, purtroppo, è impossibile sopravvivere. Ma questo ancora non si è capito».

Lei che cosa suggerirebbe?

«Di prendere atto del fatto che le migrazioni sono già in corso e che nulla potrà fermarle. Tutto sta nel vedere quale sarà la risposta delle società, specialmente in Europa. Come primo passo bisogna smettere di pensare che l’eventuale conflitto abbia una matrice religiosa. Già adesso dall’Africa e dal Medioriente arrivano molti cristiani, ma questo non mette al riparo dall’insorgere di problematiche etniche o culturali. Ancora una volta, può essere determinante il ruolo della Chiesa, che riveste da sempre un ruolo globale».

Si riferisce al pontificato di Francesco?

«Il magistero di papa Bergoglio gode di vasta risonanza nell’America del Nord, anche presso i non credenti, che restano colpiti dalla sua umiltà e dal suo desiderio di mettersi in ascolto. Le sue origini argentine, inoltre, sono interpretate come un messaggio molto forte sulla direzione in cui la Chiesa si sta muovendo: in un futuro non troppo remoto, il 77% dei cattolici vivranno proprio in America Latina, in Africa e in Asia, senza contare gli effetti delle migrazioni, per cui una quantità considerevole dei fedeli presenti in Europa sarà costituita da nigeriani, congolesi o filippini. Con tutto il rispetto per la svolta impressa da Francesco, mi sento di dire che l’evento davvero memorabile sarà l’elezione di un Papa africano. Secondo le stime, nel 2040 i cattolici africani raggiungeranno la quota di 460 milioni, superando così quella che nel 1950 era la popolazione complessiva dei cattolici in tutto il mondo».

In Europa si sta riaffacciando il dibattito sulla presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici: qual è la sua posizione?

«Se guardiamo alle cronache americane di un secolo fa, ritroviamo lo spauracchio delle incomprensibili pratiche religiose diffuse dai terribili migranti. L’unica differenza è che allora si trattava di cattolici provenienti dall’Italia, dalla Polonia o dalla Germania. Movimenti come il Ku Klux Klan (che nel 1920 contava cinque milioni di aderenti) sono nati come reazione protestante al dilagare del cattolicesimo, ma anche a livello normativo furono numerosi i provvedimenti per impedire, tra l’altro, la nascita di scuole “religiose”, ossia cattoliche. Quel che si afferma oggi a proposito dei musulmani è già stato affermato in passato, e pressoché negli stessi termini, a proposito dei cattolici e degli ebrei. Solo con il tempo abbiamo compreso quanto fossero assurdi e ingiusti quegli atteggiamenti. Il sociologo Joseph Gusfield ha coniato la definizione di “crociata simbolica” per indicare una serie di decisioni politiche e legislative il cui obiettivo ultimo consiste nel rafforzare il primato di un gruppo religioso a discapito di un altro: lo stesso proibizionismo non si limitava a impedire il consumo degli alcolici, ma mirava a ribadire i dettami della morale protestante. Mi pare che la situazione attuale sia sotto molti aspetti analoga. I cattolici dovrebbero essere i primi a ricordare di essere stati vittime di queste “crociate simboliche”».

In molte parti del mondo, però, la persecuzione non è solo simbolica.

«Sì, anche se purtroppo il fenomeno è molto sottovalutato. Che piaccia o no, la morte di due bianchi in un attentato terroristico continua a fare più notizia della strage di duecento africani, come se in Paesi come la Nigeria o il Sudan la violenza fosse un fatto endemico, non eliminabile. Negli Stati Uniti molti cristiani stanno cercando di far nascere una consapevolezza diversa, che trova il sostegno anche di numerose organizzazioni ebraiche. Gli ebrei per primi, infatti, sanno bene che la persecuzione religiosa è sempre la stessa, senza possibilità di eccezione o distinzione»

Fonte: Alessandro Zaccuri | Avvenire.it