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Cannabis in gita di classe… come devono comportarsi i professori?

Gentile Pellai

Ho letto il caso della classe del Parini a Milano e della gita interrotta a causa dei ragazzi trovati in possesso del fumo. Lo scorso anno in un altro blasonato liceo di una grande città è successa la stessa cosa alla classe di mio figlio, sempre una 5° ginnasio. Un compagno  si è fatto beccare mentre comprava il fumo in gita… aveva trovato un pusher  anche a Firenze.  Hanno chiamato i suoi genitori e lui è rientrato subito a casa. La gita è continuata ma col malumore degli insegnante e dei ragazzi.

In particolare uno di loro, con cui i ragazzi avevano un bellissimo rapporto, da allora ha cambiato completamente atteggiamento nei loro confronti. Li ha accusati di omertà perché la dose  che il compagno stava comprando non era per uso personale e sicuramente avrebbe dovuto condividerla con altri e perché a prescindere da questo, secondo lui, molti sapevano cosa aveva intenzione di fare e non l’hanno fermato né denunciato ai professori per evitare che questo accadesse. Un bellissimo discorso permeato di alti valori educativi contro l’omertà… Ma non si dimentica che hanno  15 anni e il loro unico pensiero, in quella situazione, è stato “non fare la spia”… considerata un azione imperdonabile in un gruppo di adolescenti.

Insomma quello che voglio dire è che i ragazzi hanno sbagliato, non andranno mai più in gita ed è una giusta punizione che nessuno ha contestato, né i ragazzi né i genitori. Giusto il discorso del professore sulla responsabilità collettiva che spero sia stato recepito. Ma perché non perdonarli, cosa che non riesce a fare il professore, pensando anche alla loro giovane età e a quello che avrebbe fatto lui al loro posto? Io per esempio, che penso di essere oggi una persona corretta e capace di dire quello che penso, a 15 anni non avrei mai denunciato un compagno di classe…

Chiara

 

Gentile Chiara, la tua domanda è davvero interessante. Perché pone a noi adulti, genitori o docenti che siamo, un dilemma educativo. Quando un figlio o uno studente ne fanno una grossa, qual è l’intervento che serve? E quale invece quello che, oltre a non servire, rischia di aggiungere danno a danno.

Partiamo dai fatti: in gita, uno studente viene “beccato” a fare una trasgressione molto grave. Grave perché ha risvolti anche sul piano penale. Grave perché ha a che fare con le sostanze psicotrope, intorno alle quali gli adulti devono avere un unico pensiero ed un’unica posizione educativa: tolleranza zero. Quindi, l’intervento della scuola che ha “intercettato” la trasgressione, l’ha sanzionata e, di conseguenza, l’ha “disincentivata” in tutti gli altri a me sembra ineccepibile.

A questo punto, però, succede un’altra cosa. I docenti “tengono” il broncio con tutti gli altri, ritenuti complici e sostenitori della trasgressione del compagno. Come se quest’ultimo fosse colui che si è sacrificato e che ha pagato le colpe, non sue, ma di tutto il gruppo. Così, da quel momento in poi la situazione si fa pesante. E soprattutto la relazione tra adulti e ragazzi si fa pesantissima. Si creano barriere e ci si trova così “cristallizzati” nella posizione di nemici: voi contro noi, noi contro voi.

Ecco, su questo gentile Chiara, lasciami dire che io non sono per nulla d’accordo. Di fronte ad errori clamorosi dei ragazzi credo proprio che gli adulti abbiano tutto il diritto (e il dovere) di ripristinare le regole e di sanzionare l’azione maldestra (e in questo caso anche illegale). Fatto questo, l’adulto deve poi costruire un contesto relazionale dove mette a disposizione la propria adultità non per “tenere il broncio”, ma per permettere ai ragazzi di rielaborare ciò che è successo, di rifletterci su, di costruire una sana e logica sequenzialità tra causa ed effetto. Che non è cosa che si può ottenere se l’adulto si presenta solo arrabbiato e di rimando “rompe la relazione” con chi gli viene affidato.

La relazione educativa con un minore è spesso deludente per chi lo educa. I minori sono pasticcioni, estemporanei, fanno molti danni, a volte senza neanche pensarci su troppo. Il nostro compito è avere uno sguardo vigile e attento sulle loro trasgressioni, non colludere e non indulgere con esse. Ma poi, non ha nessun senso, dopo che abbiamo ripristinato l’ordine e la regola, instaurare un clima di disagio emotivo dove noi mostriamo che non siamo in grado di rielaborare dentro di noi ciò che il minore ha fatto. Molti di noi sono certamente cresciuti con genitori che, dopo una trasgressione, instauravano le settimane di “musoni”, di silenzio a tavola, di “tempo dell’offesa” che ci faceva stare male, perché ci insegnava che non solo avevamo fatto un errore ma che noi stessi lo eravamo diventati.

Serve con un minore che sbaglia, fargli comprendere ciò che ha sbagliato e non che lui stesso è sbagliato. I docenti che non “ricostruiscono” una relazione “attiva e accogliente” con i loro studenti, dopo che uno di loro ha fatto uno sbaglio (anche un grande sbaglio, come in questo caso), danno il messaggio di non essere più disponibili a mantenere la relazione, con chi sta crescendo, proprio nel momento in cui quella relazione è la cosa di cui hanno più bisogno.

In questo caso poi l’adulto si aspettava che i ragazzi avrebbero fatto alleanza con lui contro il proprio compagno. Questa aspettativa mi sembra proprio fuori dal principio di realtà. L’unica situazione in cui i ragazzi sanno che bisogna correre a riferire ad un adulto ciò che sta succedendo nel gruppo dei pari è quando qualcuno si sta mettendo in serio pericolo o sta vittimizzando un’altra persona. In quel caso è possibile e a volte necessario “andare a dire” e, a volte, non sempre però, i ragazzi lo fanno.

Ma raccontare una trasgressione ad un adulto….. no, questo non ce lo possiamo aspettare. Perché da sempre la trasgressione è quel territorio fuori dalla norma che i giovanissimi provano ad esplorare e che gli adulti devono essere bravi ad intercettare. Non si può andare a dire all’adulto “la trasgressione del proprio compagno di banco”, perché questo, nel gruppo dei pari, porterebbe all’esclusione. “Tu sei più interessato a farti vedere bello dai prof, invece che ad essere amico nostro”.

Chiedere ad un adolescente di “allearsi” con gli adulti normativi piuttosto che con i propri compagni trasgressivi è troppo. Il massimo che può fare un ragazzo è dissociarsi dalla trasgressione dei propri compagni, non prendervi parte, non immischiarsi in ciò che sta accadendo. Probabilmente questo lo avranno fatto tanti ragazzi partiti per questa gita. Che avevano voglia di divertirsi senza necessariamente entrare nel copione della trasgressione. E che alla fine, loro malgrado, ne hanno subito le indesiderate conseguenze. Ora, probabilmente, nel gruppo stesso dei ragazzi si avvierà un dibattito interno, che gli adulti non vedranno. Ci sarà chi dirà che gli adulti hanno esagerato e ci sarà chi invece risponderà…. “sì, però anche noi lo sapevamo chiaramente che non avremmo dovuto metterci in questa situazione”. Credo che di più non ci si debba aspettare da una classe di giovani adolescenti.

Potremmo immaginarci cosa avrebbe fatto Don Bosco in situazioni simili. Lui aveva a che fare quotidianamente con giovani trasgressivi. Per quanto ne sappiamo, non indulgeva mai di fronte agli errori dei suoi ragazzi e manteneva sempre la posizione dell’adulto che intercetta lo sbaglio, lo sancisce e lo corregge. Ma una cosa è certa: il suo metodo educativo puntava tutto sull’importanza di mantenere attiva, positiva, costruttiva ed efficace la relazione tra l’adulto che educa e il minore che da lui è educato. E’ questo, che penso, serva ora alla classe che si trova nello tsunami dell’evento molto grave che si è verificato in gita. E’ questo che gli adulti che ne hanno la responsabilità educativa devono essere in grado di offrire a loro.

Fonte: Alberto Pellai | FamigliaCristiana.it

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