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Pascoli, alla ricerca di un nido che è una chimera

Insieme a Leopardi Giovanni Pascoli è il maggiore poeta italiano dell’Ottocento, tra quanti hanno segnato in maniera più significativa la nostra poesia dei decenni seguenti e che più hanno risentito, al contempo, della lezione europea.  Per questa ragione, nelle antologie, la sua figura è solitamente collocata di passaggio tra Ottocento e Novecento, ad indicare il forte radicamento nella tradizione e nella cultura e il carattere innovativo dei suoi versi, ormai pienamente decadenti.

La critica si è soffermata sul simbolismo e sull’impressionismo della sua scrittura (Romano Luperini) o sull’ibridismo del linguaggio pregrammaticale (commisto di onomatopee come «fru fru fra le fratte») e di quello postgrammaticale (specialistico o gergale come nei versi «un ribatte la porca con sua marra paziente»). Ha rintracciato nella sua poesia i legami con il simbolismo francese della seconda metà dell’Ottocento e vi ha intravisto le anticipazioni di tanta produzione del ventesimo secolo. Non si contano i saggi di critica letteraria che hanno perlustrato la scrittura pascoliana da un punto di vista tecnico.

Nato nel 1855 a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli, Giovanni Pascoli proviene da una famiglia abbastanza agiata. Il padre Ruggero è, infatti, amministratore delle tenute del principe di Torlonia. L’infanzia è felice, fino all’evento tragico che caratterizzerà la sua vita e di cui diremo a breve. Da piccolo Giovanni studia ad Urbino presso il Collegio dei Padri Scolopi.

Il 10 agosto 1867 mentre sta tornando a casa su un carro il padre viene assassinato. Giovanni deve ritornare a casa in un ambiente familiare che risente molto, come è naturale, dell’avvenimento tragico. Ha solo dodici anni e trascorre spesso del tempo con la madre Caterina Allocatelli Vincenzi, in silenzio e contemplando la natura. Più tardi, nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, raccolta dedicata alla madre, Pascoli scriverà: «Io sento che a lei [a mia madre] devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’essa sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un lungo giorno di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppio: io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte».

A detta di Pascoli la morte della madre, avvenuta solo un anno più tardi rispetto all’assassinio di Ruggero, sarebbe dovuta al dolore insopportabile a seguito della scomparsa del marito. Segni indelebili di questi dolori e della nostalgia dei suoi cari compariranno in tutta la sua produzione, in particolar modo in Myricae e nei Primi e nuovi poemetti. I sospetti per la morte di Ruggero ricadono su colui che lo sostituirà nell’amministrazione delle tenute. Giacomo, fratello maggiore di Giovanni, cercherà le prove per incastrare i colpevoli, ma morirà qualche anno più tardi, probabilmente avvelenato.

Diplomatosi al Liceo classico, Pascoli frequenta Lettere classiche all’università di Bologna, allievo di Giosuè Carducci. In quegli anni si coinvolge negli scioperi e viene incarcerato per alcuni mesi, meditando probabilmente anche il suicidio. Grazie anche all’intervento di Carducci viene finalmente scarcerato e si laurea nel 1882. Si dedica da quel momento innanzi all’insegnamento e alla scrittura in versi e cerca di ricostituire il nido familiare nella casa di Castelvecchio di Barga assieme alle sorelle Ida e Maria. Ha acquistato la casa grazie ai soldi ricavati dalla vendita delle medaglie d’oro vinte per tanti anni nel concorso di poesia in latino ad Amsterdam. L’illusione ben presto si rivela vana. La sorella Ida, infatti, si sposa e il matrimonio viene percepito dal poeta come una sorta di tradimento. Lo stesso Pascoli si fidanza, ma poi rompe il fidanzamento e non convola mai a nozze, fedele fino in fondo al tentativo di ricostituzione del nido familiare, che ormai, dopo tanti anni, si è ridotto a lui e alla fedele sorella Maria.

Allievo del Carducci all’Università di Bologna, se ne discosta sempre per toni e ispirazione nelle sue raccolte fino a quando nel 1905 non subentrerà come titolare della cattedra di Letteratura italiana nella stessa Università sostituendo quel maestro che aveva ricoperto la cattedra per quarant’anni.

A questo punto, come investito del ruolo di poeta vate, Pascoli muta toni e argomenti delle poesie, che si fanno più retoriche, tronfie. Questa è la produzione pascoliana meno sentita e sincera, quella, a buon diritto, meno apprezzata. Esemplificazione del nuovo ruolo di cui Pascoli si sente investito è il discorso che tiene, pochi mesi prima di morire, al Teatro comunale di Barga per parlare dell’impresa di Libia, discorso che viene poi pubblicato su «La Tribuna» del 27 novembre. A lui, poeta, è affidato il compito di spronare l’esercito nell’impresa. Certo, non si vuole qui riflettere sull’efficacia del discorso, né tantomeno sulla sua opportunità. Preme, invece, sottolineare il ruolo e la considerazione che aveva un poeta all’interno della società un secolo fa. Era il 21 novembre 1911. Neanche cinque mesi più tardi, il 6 aprile 1912, sarebbe morto quello che è considerato uno dei più grandi poeti italiani contemporanei.

La sua produzione è innanzitutto di carattere poetico. Alla raccolta epocale Myricae che segna l’inizio del Decadentismo italiano in poesia seguono, tra le altre sillogi, Primi e Nuovi poemetti, I canti di Castelvecchio, Poemi conviviali, Odi e inni, Poemi italici. Nella prosa di Pascoli ricordiamo, oltre al testo di poetica Il fanciullino, anche il discorso politico La grande proletaria si è mossa e i saggi critici di poesia.

Partendo proprio da Il fanciullino la prossima volta ci soffermeremo sulla poetica di Pascoli: la poesia scaturisce dallo stupore di fronte alla realtà, lo stesso stupore che si legge negli occhi di un bambino che scopre la vita e il mondo.

Fonte: Giovanni Fighera | LaNuovaBQ.it 

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