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Web, il segreto è l’equilibrio

Patricia Wallace, autrice di “La psicologia di Internet”: «I genitori devono educare i loro figlio fin da piccoli»
Se c’è un rischio che si corre quando si parla di Internet, sia per esaltarne le potenzialità sia per evidenziarne i pericoli, è lasciarsi prendere la mano dall’emotività e perdere di vista un approccio più “scientifico”, in grado d’individuare, in un modo il più possibile oggettivo, le caratteristiche di questo strumento, le sue luci e le sue ombre. Il Web resta un mondo che non conosciamo ancora veramente, nel quale spesso ci muoviamo appesantiti da schemi e convinzioni non verificate. A volte forse pensiamo che sia difficile – praticamente impossibile – studiare in modo rigoroso un ambiente nel quale sembrano regnare l’emotività e l’arbitrio assoluto, come dimostra la recente polemica sul proliferare delle fake news in Rete. Ma non è così, e a ricordarcelo è Patricia Wallace, psicologa, esperta nello studio delle relazioni e dell’apprendimento, docente alla Graduate School del Maryland University College, autrice del volume La psicologia di Internet, uscito in una prima, pionieristica edizione nel 1999, e appena ripubblicato in una versione completamente rivista e ampliata, sempre per Raffaello Cortina editore (pagine 521, euro 32,00). Nel 1999 Google era ancora ai suoi albori, Mark Zuckerberg uno studente al college, e il Web qualcosa di radicalmente diverso da come lo conosciamo oggi. Ma già in quel primo volume si evidenziavano alcuni degli aspetti che sarebbero poi diventati cruciali con la diffusione massiccia dell’uso della Rete, dall’aggressività online alle identità fittizie, dalla difficoltà nel gestire il tempo e l’attenzione dedicati al Web alla vera e propria dipendenza.

A quasi vent’anni di distanza lei dedica ampio spazio ai social media, all’altruismo in Rete, alle insidie per la privacy e ai videogiochi, con un approccio che ha il pregio di mantenersi sempre equilibrato, in grado d’individuare opportunità e problemi.
«Ormai la ricerca ha dimostrato in modo chiaro che la violenza ha effetti negativi e rende i ragazzi meno empatici e sensibili a situazioni violente nella vita reale – spiega la studiosa a proposito dei videogame –. È altrettanto chiaro ormai che si tratta di prodotti coinvolgenti per i giovani, che possono portare a un uso compulsivo. D’altra parte non mancano esempi di effetti positivi. Ad esempio, giochi nei quali si richiede un’alta dose di concentrazione per reagire con prontezza a mostri che balzano fuori all’improvviso o a colpi di cecchini da un edificio lontano possono migliorare alcune attività cognitive come l’attenzione visiva e la percezione dello spazio. Ci sono poi ambienti di gioco progettati proprio allo scopo di favorire l’apprendimento, lo sviluppo di particolari abilità o la riabilitazione. Un esempio è Re-Mission, ideato tempo fa da un gruppo di oncologi, biologi, infermieri e psicologi per aiutare i bambini malati di cancro a continuare le cure, anche in presenza di pesanti effetti collaterali. I ragazzi dovevano pilotare un nanobot attraverso venti livelli di gioco, per portare a termine la missione di sconfiggere definitivamente le cellule cancerogene».

Lei incoraggia i genitori ad aiutare i propri figli a trovare modi positivi per usare la Rete, non focalizzandosi soltanto sui rischi. Ha qualche consiglio per gli educatori su come favorire un uso critico di questi strumenti da parte dei ragazzi?
«È importante che i genitori sappiano quali zone della Rete frequentano i figli, con chi comunicano, quali app utilizzano sul proprio smartphone e come. Un fattore chiave è cominciare a parlarne quando i figli sono ancora piccoli, in modo che siano fin dall’inizio al corrente dei rischi e dei benefici. Si possono usare strumenti tecnologici, come i software filtro, i controlli delle password e i sistemi per la limitazione del tempo online. In alcune famiglie si utilizza il metodo del check-in al momento di andare a letto, in modo che i computer e gli smartphone restino fuori dalla camera e i ragazzi possano riposare in modo adeguato».

Quali le sembrano i maggiori rischi legati all’uso eccessivo dei social media e alla dipendenza da Internet?
«Assistiamo ad alcuni effetti decisamente negativi, come la perdita di amicizie, la carenza di sonno, le difficoltà nello studio e nel lavoro. Anche se non è ancora stata riconosciuta una vera e propria sindrome di “dipendenza da Internet” all’interno del Dsm (il testo di riferimento scientifico sulle malattie mentali, ndr), credo che in molti casi l’utilizzo compulsivo di questi servizi dovrebbe essere curato con l’aiuto di specialisti».

Come cambiano le dinamiche di gruppo grazie all’uso del Web?
«Grazie alla Rete le aziende creano team con esperti da tutto il mondo, che possono usare svariati software e strumenti online per interagire e condividere materiali. Tuttavia la ricerca dimostra che questi gruppi devono affrontare sfide che ne compromettono le possibilità di successo. Una è legata alla fiducia, che on line è molto più difficile da costruire, in assenza di quegli accorgimenti usati comunemente negli incontri faccia a faccia come la condivisione informale di esperienze, i sorrisi, o le strette di mano. Provate a mancare una scadenza e sarà molto difficile mantenere la fiducia nella vostra capacità e volontà di partecipare al progetto da parte dei membri del vostro gruppo».

Fonte: Stefania Garassini | Avvenire.it

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