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Smartphone, le «connessioni» da accendere a scuola

Ammettere lo smartphone in classe è urgente e utile? Già da tempo non si spegne più neanche in volo. Basta metterlo in ‘modalità aereo’ e il cellulare ci fa compagnia per tutto il viaggio. Al momento ci dobbiamo accontentare di essere offline in attesa del Wi-fi a diecimila metri, ma pur sempre possiamo restare incollati a quello schermo così ammaliante. Poco importa che sotto di noi le nuvole scivolino veloci assumendo delle straordinarie sembianze. Noi non le vediamo neanche.

Stando alle dichiarazioni del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone anche a scuola verrà sancito che non si può fare a meno del cellulare. Il divieto di portarlo e usarlo in classe, imposto da una direttiva del 2007, sembra avere vita breve. Le aule rappresentavano forse l’unico luogo da cui il telefonino riusciva a star fuori o, almeno, poteva addormentarsi nelle tasche degli zaini o nei cassetti dei prof. Quest’ultima barriera potrebbe ora cadere sotto i nostri occhi.

La logica è che una scuola sempre più digitalizzata, wi-fizzata, smaterializzata non possa non stare al passo con i tempi. Chissà se anche nelle classi vigerà la forma compromissoria dell’acceso, ma silenzioso. Succede già al cinema, come se fingessimo tutti di non riconoscere quanto il vicino che ogni tre minuti controlla la mail ci impedisca di entrare nel film, disturbati da quella fastidiosa luce che si accende in continuazione accanto a noi.

Non è una scelta neutra quella di permettere agli studenti di avere un terminale anche in classe. Rispetto alla tecnologia la scuola rischia di vivere due errori speculari. Da una parte una chiusura sul passato che non tiene conto dei cambiamenti in atto nella società e del loro influsso diretto e indiretto sui più giovani. Dall’altra un fideismo tecnologico che confida nello strumento in sé a prescindere dalla sua specifica natura e dal suo utilizzo.

Sappiamo già che l’inserimento della Lim (la lavagna interattiva multimediale) e del tablet non hanno necessariamente migliorato le condizioni di apprendimento o reso più facile l’insegnamento. Laddove è accaduto è stato per il contributo di lavoro personale dei docenti e dei discenti. In alcune scuole, sul tablet, si sta anche facendo marcia indietro. Una scuola che cede al fideismo tecnologico rischia di confermare l’attitudine di molti a considerare indispensabile la presenza di un dispositivo connesso alla rete accanto a sé. Eppure la classe è già un luogo dove ogni singolo studente, se lo desidera, può essere connesso a un altro. È connesso tramite il suo pensiero, tramite le parole che lo formulano, tramite gli atti e i comportamenti che lo documentano. Ed è questa una connessione fruttuosa, che all’interno di una comunità di lavoro genera un prodotto, qualcosa che non c’era prima, che possiamo chiamare sapere o esperienza.

Fa specie che proprio nel momento in cui c’è tanta preoccupazione sulla intrusività e invasività della tecnologia nella vita dei ragazzi, la scuola anziché porre un giudizio chiaro e condizioni concrete perché ciò trovi un limite ritenga irrinunciabile la presenza del cellulare in classe. È questa una via facile, di limitata fantasia, che immerge gli studenti nel mainstream anziché fornire loro strumenti per giudicarlo. In fondo è un vecchio modo, persino un po’ ingenuo, di essere ‘moderni’.

Ogni insegnante ed educatore sa bene che razza di distrattore fenomenale sia un cellulare: con il semplice sfiorare delle dita ci si può trasferire da un’altra parte, non essere più qui. Con il pensiero che fa lo yo-yo fra le discipline e i messaggi whatsapp o le foto su Instagram o i video su Youtube può diventare davvero complesso apprendere, ossia far diventare proprio ciò che viene trattato in classe. Chi ha detto che imparare sarà più facile? D’altro canto gli errori dei più giovani sono sempre errori nostri, prima di diventare loro. E chi pensa che del cellulare non se ne possa proprio fare a meno, nemmeno per qualche ora, siamo evidentemente noi adulti. Noi adulti che stabiliamo le regole della loro convivenza senza tenere conto della totalità dei fattori. Noi adulti che poi ci preoccupiamo di vederli sempre connessi e isolati senza far abbastanza per sostenerli nel loro rapporto con il reale.

Fonte:  Luigi Ballerini | Avvenire.it

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