Come capita sempre a chi ha un po’ di vita alle spalle, la morte di qualcuno che in qualche modo hai incrociato, ti pone qualche domanda. E così sono tornate alla mente di chi scrive le poche occasioni in cui è capitato di incontrare Marco Pannella. Episodi minori, per carità, rispetto a tutte le testimonianze e i racconti che abbiamo letto e ascoltato in questi giorni e che hanno contribuito a costruire un elefantiaco monumento all’esponente radicale scomparso all’età di 86 anni, sopraffatto dai tumori al fegato e ai polmoni.
Il ricordo è legato ad alcune tribune elettorali e amministrative organizzate per dovere di servizio pubblico dalla Rai, in cui ci è capitato di dover porre domande a lui come ad altri esponenti politici. Ma lui, il Marco, era speciale. Le sue risposte non erano mai sul merito. Per dirla con gergo calcistico, buttava sempre la palla in tribuna. E ogni domanda era l’occasione per ribadire la sua idiosincrasia per il servizio pubblico che gli impediva di dire tutta la sua verità. La ragione spesso era solo legata al tempo cronometrato della risposta che lui non dava, mentre metteva in scena il suo teatro della politica. E il giovane giornalista, al di là della domanda intelligente e studiata, finiva per essere la spalla perfetta, anzi la vittima sacrificale per il mattatore politico. Che negli anni avrebbe guadagnato la fama del paladino dei diritti civili o di “leone delle libertà”, come lo ha definito il presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Il tributo che gli ha riconosciuto l’intera classe politica, oltre che un’ammirata generazione giornalistica, induce a qualche considerazione.

Davvero il tempo che ci stiamo lasciando alle spalle non regge al confronto con il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e duramente sperimentando. Per essere chiari, un uomo come Pannella poteva essere figlio solo del suo tempo. Cioè di una stagione che aveva già alle spalle la ricostruzione postbellica e cominciava a spostare lo sguardo dal pubblico al privato, dalla comunità (popolo-partito) agli individui. In quegli anni il futuro sembrava tutto da conquistare e il passato tutto da rovesciare. La conquista dei diritti, strettamente individuali e non sociali, sembrava lì a portata di mano. E lui, Pannella, era il miglior banditore sulla piazza. Anche se, per rispetto della verità, l’unica battaglia che lo ha visto veramente vittorioso è stata quella per la legge sulla interruzione volontaria della gravidanza.

La famosa legge 194 che ha portato con sé due conseguenze di grande peso sociale. La prima: aver introdotto per via culturale il “diritto” all’aborto, mentre per la legge è solo una possibilità. La seconda: aver aperto la strada alla cultura del desiderio applicata alla vita biologica. Nessuno di noi può ragionevolmente nascondere che il referendum sull’aborto fu l’inizio di tutto. E che la fecondazione assistita senza limiti come l’utero in affitto, le unioni civili come l’eutanasia, sono figli della madre di tutte le battaglie: l’introduzione per via legislativa dell’aborto.

E al termine della sua vita spericolata Pannella ha potuto dire ai suoi fratelli radicali: “Tranquilli, abbiamo vinto”. Non abbiamo alcun problema nel riconoscergli la vittoria. Ma non ci sentiamo affatto sconfitti, perché l’ethos cristiano sopravvive a tutto.

Ogni generazione ha gli eroi che merita o che si sceglie. E se tanti si sono riconosciuti in Pannella e nelle sue mille (e talvolta scombiccherate) battaglie, non saremo certamente noi a togliere l’aureola al Marco libertario, individualista, laicista, relativista. Piuttosto, dovremmo fare tesoro della parabola umana e politica di Pannella. Ci piacerebbe un giorno poter cantare le lodi di un campione “dei doveri civili”, di un paladino altrettanto appassionato della responsabilità nei confronti del prossimo, piuttosto che dell’individualismo e del relativismo esasperati. Al punto da affermare coraggiosamente che il “noi” è un dovere rispetto al perenne “io… io”, che il bene comune è un dovere che sopravanza qualunque interesse personale, che il dovere di garantire i diritti del popolo viene prima di quelli delle élite di qualunque specie, che pagare le tasse per garantire la giustizia sociale è un bellissimo dovere, che costruire la coesione sociale è un dovere e alimentare il conflitto perenne non lo è, che costruire per scelta una famiglia è una splendida avventura che può anche essere avvertita come il più nobile dei doveri verso la propria nazione e verso l’umanità intera, che essere onesti e respingere la corruzione è un bellissimo dovere, che aiutare i poveri è un dovere impagabile, che costruire la pace è un dovere meraviglioso. E potremmo andare avanti all’infinito.
Forse la nostra… le nostre generazioni non avranno la  fortuna di celebrare un “eroe dei doveri civili”, ma almeno abbiamo il diritto di sognarlo e di aspettarlo.