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Il matrimonio, anche senza fede dei coniugi, è comunque valido

Professore di teologia pastorale dei sacramenti, Nicola Reali sostiene che nell’attuale normativa ecclesiastica la fede personale non rientra tra le proprietà essenziali delle nozze. Quanto al “motu proprio” del Papa sul tema della nullità del vincolo tra gli sposi, dice: “E’ un passo in direzione di un approccio alla famiglia pastorale”. E nella Chiesa il dibattito si fa sempre più vivo alla vigilia del Sinodo.

CITTÀ DEL VATICANO. Professore di Teologia pastorale dei sacramenti al Pontificio Istituto Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense, Nicola Reali ha recentemente dato alle stampe per Edb “Quale fede per sposarsi in chiesa? Riflessioni teologico-pastorali sul sacramento del matrimonio”. Un lavoro utile soprattutto in vista della sessione di ottobre del Sinodo sulla famiglia.
Professore, al centro del suo lavoro vi è una tesi non così ovvia, almeno per i non addetti ai lavori: non c’è bisogno della fede perché il sacramento del matrimoni sia valido. È così?
“Sì, in effetti, è così. Oggi come oggi, nell’attuale normativa ecclesiastica, la fede personale di chi si sposa non rientra nelle proprietà essenziali che rendono valido (è, dunque, sacramento) un matrimonio tra due battezzati. Più precisamente: secondo il diritto canonico perché un matrimonio sia valido occorrono che siano rispettate alcune caratteristiche: anzitutto che sia eterosessuale (tra un uomo e una donna), che sia “uno” (cioè che respinga ogni forma di poligamia o di poliandria), che sia “indissolubile” (quindi, che escluda ogni forma di divorzio) e che sia fecondo (ovvero, aperto alla trasmissione della vita). Ora, quando queste caratteristiche sono rispettare un matrimonio è valido e  –  se celebrato, nelle forme previste dal diritto, tra due battezzati cattolici – è ipso facto anche un sacramento. Pertanto, non c’è bisogno di aver studiato chissà quale teologia per capire che, in questo modo, la fede personale di chi si sposa (se crede o non crede in Gesù Cristo, in Jhwh o in nessuno) non rientra in queste caratteristiche e, dunque, non rientra tra gli elementi che, stabilendo la validità del matrimonio, ne determinano nello stesso tempo anche la sacramentalità.
Ovviamente, conviene precisare che quanto finora affermato è la posizione del diritto canonico, non della Chiesa in quanto tale. Detto diversamente: il diritto canonico, come ogni diritto, è la legge che regola la vita della Chiesa nei suoi aspetti fondamentali, ma la vita della Chiesa non si riduce alle sue leggi canoniche, è più ampia. Pertanto, non è del tutto corretto affermare che la Chiesa non considera la fede un elemento essenziale per la celebrazione del matrimonio cristiano, ma unicamente il diritto canonico. Prova ne è che la pastorale ordinaria delle parrocchie viceversa punta molto sulla fede di chi si vuole sposare in chiesa. Tanto è vero che chiunque, per esperienza propria o altrui, sa benissimo che sposarsi in chiesa significa partecipare a dei corsi di preparazione al matrimonio, i quali in maniera esplicita sottolineano il valore dell’adesione personale alla fede della Chiesa.
Pertanto, il contenuto centrale del mio libro va nella linea di voler mettere in evidenza come l’azione quotidiana di tutti coloro, sacerdoti e laici, che s’impegnano per favorire un approccio al sacramento del matrimonio che tenga conto della fede di chi si sposa, non sia un cammino totalmente parallelo – io, nel mio libro parlo di “due mondi separati”  –  rispetto alla disciplina canonica che, al contrario, non considera la fede un elemento essenziale per la valida celebrazione del matrimonio. Forse, è venuto il momento che i problemi della pastorale non siano considerati solamente come “problemi pastorali” che devono risolvere i parroci, mentre i cultori della disciplina canonica continuano ad affermare una normativa (che tra l’altro risale a cinque secoli fa) per salvaguardare la giuridicità del diritto”.

Facciamo un passo in avanti. E arriviamo subito alle recenti lettere “motu proprio” con le quali il Papa ha rivisto il processo canonico per quanto riguarda le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio. Che cosa ha motivato secondo Lei questa decisione di Francesco?
“L’atto con il quale lo scorso 8 settembre Papa Francesco ha rivisto alcuni aspetti del processo canonico di dichiarazione di nullità di matrimonio penso, salvo miglior giudizio, che vada proprio nella linea or ora indicata e, dunque, da questo punto di vista, è sicuramente il primo e decisivo passo in direzione di un approccio al tema del matrimonio e della famiglia esplicitamente pastorale. Pastorale significa, a mio avviso, anzitutto mettere al centro di ogni riflessione il compito fondamentale della Chiesa di annunciare il vangelo del matrimonio e della famiglia alle donne e agli uomini del nostro tempo. Tenuto conto, infatti, che oggi come oggi il punto sul quale la Chiesa sperimenta la maggiore difficoltà nel comunicare il suo messaggio è quello dell’indissolubilità, Papa Francesco ha cercato di provvedere a questa emergenza pastorale semplificando e velocizzando l’iter giuridico di dichiarazione di nullità, che era rimasto immutato nei suoi aspetti fondamentali per moltissimo tempo. Un modo semplice, ma concreto, per venire incontro a tutte quelle persone che  –  come dice il Motu proprio stesso – “pur desiderando provvedere alla propria coscienza, troppo spesso sono distolti dalle strutture giuridiche della Chiesa a causa della distanza fisica o morale”. Parimenti anche la sottolineatura dell’importanza e decisività del ruolo e del giudizio del Vescovo, porta in primo piano la necessità di considerare la questione della nullità matrimoniale all’interno delle prerogative pastorali del Vescovo, anziché essere delegato a degli esperti che si comportano come dei professionisti del diritto”.

Anche se in materia dottrinale poco cambia, tutto ciò pone in essere un importante cambiamento.
“Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Specialmente se si considera che in questo modo Papa Francesco sprona tutta la comunità ecclesiale ad affrontare l’emergenza pastorale sul matrimonio e la famiglia, senza dover partire sempre da una generica (e sterile) lamentazione sui tempi che la Chiesa vive. In altri termini, Papa Francesco si smarca da quella tendenza, abbondantemente documentabile negli ultimi decenni, che, di fronte alla crisi della visione cristiana del matrimonio e della famiglia, non ha saputo far altro che imputare al mondo contemporaneo la colpa di questa crisi, senza saper far altro che ribadire la propria posizione. Detto semplicemente: di fronte ad un mondo che non crede più nell’indissolubilità del matrimonio, spesso non si è fatto altro che riaffermare che il matrimonio è indissolubile, addossando la responsabilità dell’oblio di questa verità alle forme socio-culturali del mondo contemporaneo. Ora, è chiaro che la Chiesa non può rinunciare ad annunciare l’indissolubilità del vincolo coniugale; ma può limitarsi a questo? La condizione delle donne e degli uomini del nostro tempo  –  una condizione, che certamente non sempre può piacere, poiché densa di drammi, complicazioni ed equivoci  –  è comunque di fatto la realtà in cui la Chiesa è posta ed è chiamata a vivere fino in fondo la sua missione e la sua testimonianza. Per cui assumere sempre come punto di partenza un giudizio negativo sul mondo di oggi  –  pastoralmente parlando  –  non ha nessun senso e utilità, perché sposta immediatamente il problema: da quello di annunciare il vangelo alle donne e agli uomini di oggi, a quello di interrogarsi sulla distanza delle forme di vita contemporanee da quelle auspicate dalla Chiesa. Papa Francesco, che ovviamente non rinuncia ad annunciare instancabilmente il contenuto della dottrina tradizionale (e chi pensa il contrario è in malafede), con la promulgazione del Motu proprio dell’8 settembre ha semplicemente affermato che, anche se il mondo di oggi ha mille e uno problemi, non ci si può limitare a biasimarlo e, dunque, non si possono dimenticare tutte quelle donne e quegli uomini che soffrono per loro situazione matrimoniale, offrendo loro un segno concreto di vicinanza e misericordia da parte della Chiesa”.

Questo è il primo passo, c’è ancora qualcosa da fare? Dalla lettura del suo libro sembrerebbe di sì.
L’altra cosa da fare, a mio avviso, sarebbe quella di prendere coscienza di quanto  –  non solo è davanti agli occhi di tutti coloro che abbiano una minima esperienza pastorale  –  ma anche è stato più volte affermato dagli ultimi due Pontefici, vale a dire che la crisi di tanti matrimoni, come detto poco sopra,  si origina da una carenza o assenza di fede in quello che si celebra in chiesa. Sono troppi i matrimoni officiati senza alcuna fede in ciò che è celebrato! La comunità cristiana deve fare qualcosa e non può assistere impotente a queste folle di non credenti che si pongono davanti all’altare del Signore per celebrare le nozze.

Torniamo al punto della fede di chi si sposa. Non è scontato che per sposarsi in Chiesa bisogna aver fede?
Tanto scontato non è, perché, in ogni caso, non si può non tenere conto del mutamento socio-culturale che è avvenuto. Detto diversamente: non si può parlare e proporre la visione cristiana del matrimonio e della famiglia senza tenere conto che comunque ai nostri giorni quella seppur minima adesione ai valori “naturali”, che per secoli, in una maniera o nell’altra, è appartenuta alla stragrande maggioranza delle persone, oggi non esiste più. Perseverare nel dare per scontato, quel che, forse, fino a cinquant’anni fa poteva ritenersi scontato non so se sia la strada migliore da percorrere. In fin dei conti è questa l’intenzione con cui ho scritto il mio libro: non certo per dare alle stampe un pamphlet polemico, ma unicamente per capire i motivi che hanno condotto la Chiesa ad assumere questa posizione, evidenziando contemporaneamente la possibilità e l’opportunità perlomeno di una discussione, franca e libera, sull’opportunità di mantenere viva una normativa giuridica di cinque secoli fa oggi, in mondo che evidentemente non è più quello di ieri. Secondo me, la revisione della normativa non comprometterebbe minimamente, dal punto di vista dottrinale, il depositum fidei della Chiesa, perché il valore del matrimonio naturale (che è ciò che la normativa attuale vuole garantire) risulterebbe in ogni caso salvaguardato: si dovrebbe solamente prendere atto che non è sufficiente essere battezzati perché il proprio matrimonio naturale sia un sacramento, per il semplice fatto che, oltre agli “atei devoti”, esistono anche i battezzati poco devoti e perfino non credenti.

Mi auguro che la prossima Assemblea Ordinario del Sinodo dei vescovi, partendo da quanto affermato nella Relazione finale dello scorso anno (n. 48) e nell’Instrumentum Laboris (n. 40), possa affrontare e risolvere questo problema, senza aver paura di lasciare cadere ciò che risulta legato a un mondo che non esiste più”.

Fonte: Repubblica.it

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