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Personalismo, vera anti-ideologia

E’ cominciato ieri pomeriggio a Stresa il 16° Corso dei Simposi Rosminiani, l’appuntamento annuale al Colle Rosmini della città piemontese in cui Antonio Rosmini, filosofo e presbitero italiano (beato dal 18 novembre 2007), si è spento il 1° luglio 1855. Fino a giovedì esperti e intellettuali si confronteranno sul suo pensiero a partire dal tema di questa edizione «Persona, psiche e società. Sulle tracce dell’umano». Pubblichiamo l’intervento integrale del segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino. Per informazioni: info@rosmini.it

XVI corso dei “Simposi rosminiani”, Persona, psiche e società. Sulle tracce dell’umano (Stresa, 25 agosto 2015)

0. Premessa
Il tema che sto per affrontare si collega a quello del II corso dei Simposi rosminiani, celebrato nell’anno 2001, a ridosso della Nota emanata dalla Congregazione della Dottrina della Fede che ha interpretato il decreto Post obitum in modo da consentire la beatificazione di Rosmini. Il ripercorrere gli atti di quel simposio – dal titolo “La fine della persona?” – mi consente innanzitutto di rivolgere una memoria riconoscente a due dei suoi protagonisti, che hanno terminato la loro esistenza terrena nel frattempo, il prof. Antimo Negri e il prof. Giovanni Reale. Quanto, poi, ai contenuti ritengo non si possa affrontare il tema della centralità della persona prescindendo dalla problematicità (per certi versi, ambiguità) della nozione stessa di persona né penso si possa ignorare quanto scomodo e culturalmente rischioso sia pensare la nozione di persona posta all’incrocio fra natura e cultura, sostanza ed esistenza, cogliendone l’intrinseca paradossalità.

Nonostante questo, o proprio grazie a questo, sento il bisogno di sottolineare come, solo un recupero della centralità della persona permette di oltrepassare e superare quelle forme di colonialismo ideologico, dalle quali in più occasioni ci mette in guardia papa Francesco, con una consapevolezza che affonda le sue radici nel percorso del personalismo del Novecento, che trova in un importante saggio di uno dei fondatori di Ésprit, Jean Lacroix, la sua formulazione nei termini de Il personalismo come anti-ideologia.

Tutto questo mi permette di dire che il tema del Simposio di quest’anno ci colloca in maniera problematica al centro della questione più rilevante per l’uomo e la società di oggi: quella antropologica. Porsi sulle tracce dell’umano – come suggerisce il titolo di queste giornate, per coniugare insieme persona, psiche e società, alla luce dell’illuminato insegnamento di Antonio Rosmini – rappresenta per noi, e indirettamente per tutta la comunità civile e cristiana, una grande fonte di arricchimento. Risulta evidente il prezioso servizio che occasioni come questa rendono al cammino della Chiesa italiana verso Firenze, ma soprattutto agli sviluppi fecondi che tutti ci auguriamo di quel convenire.

Il mio intento non è quello di compiere uno studio storico o semplicemente teoretico sul pensiero di Rosmini, ma di raccogliere le sue intuizioni e ascoltare le sue analisi per formulare un pensiero che sia motivo di crescita e di rinnovamento sia per la vita personale che per quella associata.

Il trinomio posto a tema di questo XVI Simposio ( persona, psiche e società) suggerisce di comprendere l’essere dell’uomo senza trascurare gli aspetti psicologici che ne determinano le scelte e l’operare; suggerisce cioè di tenere sullo sfondo i risultati delle scienze umane, e in particolare di quelle psicologiche e sociali, in così rapido sviluppo. Delle neuroscienze e di altri significativi approcci all’umano ci siamo occupati lo scorso anno e salutiamo con interesse i testi pubblicati negli Atti. In ogni caso degli studi scientifici, Rosmini ha sempre raccolto il contributo e con essi si è posto in un proficuo dialogo, pur muovendo una critica radicale a quelle prospettive scientiste tendenti a separare gli elementi costitutivi della persona, distorcendone l’immagine. Il motivo dell’unità e della centralità della persona infatti è senza dubbio il contributo più significativo del pensiero rosminiano; e questa è la prospettiva dalla quale muoverò in questo mio intervento, tentando di cogliere alcune delle implicazioni della sua visione unitaria per l’antropologia, il discorso sulle scienze, il diritto e la società. Sono queste le questioni che cercherò di toccare, consapevole di poterlo fare solo per cenni.

1. Unità e centralità della persona
Negli scritti rosminiani, l’uomo è al centro da un punto di vista, diremmo, quantitativo, perché rappresenta l’argomento più ricorrente e attorno al quale tutti gli altri ruotano; ma anche a livello qualitativo, perché è descritto in ogni pagina il suo valore, superiore a quello di ogni altra realtà. In questo senso si potrebbe dire che i testi del Roveretano non solo ci offrono un’indagine sulla persona e la sua specificità, ma costituiscono, al tempo stesso, un inno alla sua dignità, un’esortazione a compierne le istanze, una lode della sua mirabile elevatezza. Al contrario – possiamo riconoscere senza facili allarmismi, nella nostra epoca – solo in apparenza si ama l’uomo e ci si pone al suo servizio. In realtà, la persona è ed è stata spesso asservita a logiche disumane e disumanizzanti, che ne fanno un ingranaggio, ma non il fine, piegandolo a logiche di guadagno e di potere.

Inoltre, perdendo il senso di Dio – e questo era il costante rimprovero di Rosmini al suo tempo – va perso il senso dell’uomo stesso, perché lo si osserva da una prospettiva parziale; non sbagliata, semmai, ma incompleta e per questo ugualmente dannosa. È una dinamica simile all’eresia (ed è singolare che il Roveretano abbia dovuto subire l’onta di passare per eretico), che non è in genere una falsità, ma l’assolutizzazione di una parte di verità. Così è anche per l’antropologia: non è falso che l’uomo debba godere dei beni del corpo, è falso però che questi siano il motivo principale del suo esistere; non è falso, ma vero, che il benessere interiore sia importante per l’equilibrio dell’essere umano, ma è dannoso pensare che ciò possa andare a scapito di altri individui o che si possano per questo tollerare abusi e disuguaglianze.

Date queste insidie, ci è utile tornare alle definizioni e alle attente distinzioni di Rosmini. Cominciamo col ricordare che, nel proporre la sua definizione di uomo all’inizio dell’Antropologia, Rosmini prende le distanze dalle definizioni di altri illustri autori. Anzitutto da quella attribuita a Platone, secondo la quale «l’uomo è un’intelligenza servita da organi». Ciò che manca qui – osserva– è la determinazione del nesso che lega gli organi e l’intelligenza, «senza il qual nesso non v’ha uomo». Questa definizione ha il pregio di contrastare i materialisti, perché fa dell’intelligenza lo specifico dell’uomo, ma ha il limite di non porla in relazione con il corpo. Da qui l’acuta osservazione: «Un angelo, il quale si fornisse di un corpo come di una macchina senza informarlo di sé, non sarebbe uomo». Questo è dunque l’errore di chi contrasta il materialismo, sposando una concezione della persona che è solo intelletto, e nella quale la parte corporea funge da mero supporto.

È senza dubbio il materialismo la maggiore piaga del nostro tempo, che porta con sé utilitarismo ed edonismo, con i quali i costumi e il vivere associato si corrompono, a detrimento degli stessi individui. Non bisogna però trascurare l’opposta deviazione, di fare solo dell’anima o dello spirituale la vera essenza dell’uomo. Già le comunità cristiane del II secolo hanno dovuto contrastare questa lettura parziale dell’umano, che si rifletteva in primo luogo nella concezione cristologica. Ne è prova la Prima lettera di san Giovanni, che si oppone a chi non accetta che Cristo sia venuto nella carne e a tutte le concezioni docestiste, che ipotizzavano che Cristo fosse uscito dal corpo di Gesù prima della morte in croce, inaccettabile per il Figlio di Dio, o che il suo corpo fosse solo apparente. È dunque un problema di sempre, che ai nostri giorni si rivela in tante pratiche spiritualistiche (e non spirituali), nella ricerca di emozioni e stati d’animo sganciati dalla concretezza della vita; ma anche nell’opposto della manipolazione del corpo, a fini ben più che estetici, con la quale si sottopone il fisico a storpiature e modificazioni permanenti: anche in queste pratiche il corpo è trattato come un mero strumento ed è funzionale ai desideri del soggetto; anche qui emerge una visione parziale della persona, che ostenta libertà ma rischia invece di smarrirla.

Quanto alla definizione aristotelica dell’uomo come animale ragionevole, essa presenta a sua volta – per Rosmini – il problema di non esprimere, accanto alla parte intellettiva, quella volitiva. Ora, nella volontà, che non ha carattere recettivo (proprio dell’intelletto), ma attivo, si manifesta più pienamente la natura dell’uomo. La definizione fornita dal Roveretano (ne darà subito dopo una seconda, che però non è che il prolungamento di questa) coniuga insieme i diversi elementi visti: l’uomo è «un soggetto animale, intellettivo e volitivo». Eccoci di nuovo posti innanzi al richiamo all’unità della persona: non solo quella data dal coniugare insieme beni spirituali e beni corporei, evitando gli estremi del sensismo e del materialismo, dello spiritualismo e dell’idealismo, ma anche quella che deriva dal non enfatizzare la capacità intellettiva a scapito di quella volitiva, o viceversa.

L’intelletto, per Rosmini, ha un ovvio primato, in quanto percepisce l’Essere e quindi l’oggettivo e l’Assoluto, generando la capacità razionale e la libera volontà. È in quest’ultima però che si manifesta appieno l’essenza dell’uomo, che giunge al suo vertice nella libertà. Ora, si deve fare attenzione a non porre l’accento sul primo elemento, mettendo in ombra il secondo, quasi la persona fosse solo conoscenza, in una versione ammodernata dello gnosticismo; o sul secondo a scapito del primo, quasi la volontà fosse un assoluto, non condizionata in alcun modo sul piano fisico, biologico o psicologico, o priva di limiti e vincoli oggettivi al suo libero determinarsi. Della persona si deve dunque cogliere l’unità, e questa azione assomiglia a quella di un equilibrista, sempre a rischio di cadere da una delle due parti. È l’arte che impariamo da Rosmini e che dobbiamo insegnare: quella di misurare i pensieri e le azioni, comprendendo che una lieve deviazione fa perdere il punto di appoggio del proprio cammino e può avere conseguenze gravi.

Non soffermarci qui sulle conseguenze morali del tema dell’unità della persona. Sarebbe un capitolo ampio e suggestivo, del quale mi limito a richiamare solo un punto. In due delle sue Massime di perfezione cristiana, Rosmini mostra l’unità del processo decisionale e di santificazione, il quale scaturisce dall’azione congiunta dell’intelletto e della volontà. La quarta massima esorta ad «abbandonare totalmente se stessi nella divina Provvidenza», in un «intero distacco da tutte le cose della terra dilettevoli, potenti e illustri in apparenza»; poco dopo il Roveretao richiama invece il ruolo dell’intelletto, così che è necessario «disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spirito di intelligenza», perché «la gravità, la consideratezza e la maturità in tutte le cose, dee distinguere il cristiano». È nell’agire morale, vero punto di approdo delle considerazioni sull’unità e centralità della persona, che si manifesta la correttezza dell’antropologia assunta e si raccolgono i frutti di una visione integrale o, al contrario parziale e interessata.

2. Il dialogo con le scienze e la critica dello scientismo moderno
L’ambito morale, con la sua indagine sulla coscienza e le dinamiche della scelta libera,
porta con sé una necessaria attenzione all’ambito psicologico e, ai nostri giorni, a quello neurologico. È strettissimo il rapporto che Rosmini scorge tra l’antropologia e la psicologia. Esse «somministrano i rudimenti di tutte le altre», le quali per questo «si risolvono finalmente in queste due». Così egli manifesta il suo intento all’inizio della Psicologia, scienza che definisce come lo studio dell’anima e che arriva quasi ad equiparare all’antropologia: «Noi vogliamo riunire quest’uomo così miseramente dimezzato». Lo è ad opera di quelle prospettive scientifiche, che pretendono di studiare, assolutizzandolo, un solo aspetto dell’essere umano e, specializzandosi e ignorando il sapere metafisico, non comprendono più l’uomo come persona, ma lo rendono un oggetto. Un vero dramma per il nostro autore, che rifiuta in ogni modo questa perversione, apparentemente priva di danni perché da accettata dai più, ma portatrice di enormi conseguenze negative. È l’effetto dell’applicazione acritica del metodo positivista, che trascura l’osservazione interna dell’individuo, altrettanto importante che quella esterna, e che richiede uno sguardo interiore, attento, profondo, contemplativo.

Contrariamente a quanto avviene, i diversi saperi devono mantenersi in un costruttivo dialogo, che riconosca la limitatezza di ogni visione e una gerarchia tra le varie fonti di conoscenza. Solo così la persona potrà essere trattata, come deve, come un fine e non come un mezzo, perché se ne coglierà la superiorità e l’unicità tra tutti gli altri esseri. Va in questa linea, mi pare, il proposito degli organizzatori del Simposio di «innestare il contributo delle neuroscienze e delle scienze del profondo, con i progressi della tecnologia odierna, sulla ricchezza dell’antropologia classica». La neurologia indaga l’uomo da punti di vista sempre nuovi, dando vita a inediti legami con altre scienze. Essa diviene neuroetica, nel momento in cui applica le conoscenze neuroscientifiche all’ambito morale, per comprendere più a fondo il rapporto tra cervello, mente e coscienza. La neuroteologia, per parte sua, constata una relazione tra alcuni stati psicologici e sensazioni di tipo religioso, permettendo di riconoscere l’innato bisogno del trascendente, presente nello stesso organismo umano. Così ci aiuta a comprendere che ogni attività umana, anche quelle più spirituali dal pensiero alla contemplazione, ha una base corporea. La neuropolitica, dal canto suo, applica le nuove conoscenze all’ambito dell’impegno sociale e alle dinamiche di scelta – di linea politica o di un candidato – o di comportamento, studiando le situazioni di collaborazione tra gli individui.

Sono frontiere, per certi versi, affascinanti e in grado di offrire conoscenze nuove e importanti. Attenzione però a quanto ha detto Rosmini: serve uno sguardo pulito e pieno sulla persona e la sua unità, per non rendere l’essere umano un oggetto. L’insidia è sempre quella di una visione parziale e riduttiva, che volga il progresso in motivo di restringimento e svilimento dell’uomo, divenuto – direbbe il nostro autore – un “uomo senza persona”, se non si percepisce la sua superiorità rispetto al mondo e la sua capacità unica di percepire l’Essere, e quindi l’Assoluto. Così svuotato, ogni studio neurologico non offrirà altro che una maggiore consapevolezza sul legame tra i dinamismi psicologici e quelli biologici. Se, al contrario, con la neurologia si cercherà – come da più parti già avviene – un profondo dialogo, che unisca al sapere scientifico una visione metafisica e integrale dell’uomo, allora essa offrirà la possibilità di comprendere più a fondo la persona, le sue esigenze e la sua libertà e quindi, in qualche misura, anche lo stesso progetto di Dio su di lui. Contribuire a comprendere meglio la Rivelazione e l’esperienza credente, ecco l’obiettivo altissimo che ci permettiamo di proporre alla neurologia e alle scienze.

3. La persona come fine, per un rinnovamento del diritto e della società
La visione antropologica integrale
di cui abbiamo finora parlato, mai raggiunta ma sempre tesa a una maggiore completezza, deve tradursi, per essere realmente a servizio dell’uomo, in un nuovo ordine sociale, in grado di tutelare e promuovere realmente la persona umana. A questo fine, i diversi saperi sono chiamati non solo a un’interazione reciproca, ma anche a porsi a servizio del diritto, quale strumento sommo di organizzazione della società umana. Alla luce di quanto abbiamo detto, e facendo tesoro del costante richiamo di Rosmini, il diritto andrà inteso come relativo alla persona, come il mezzo per difenderla e svilupparla. A fronte di una sorta di “nichilismo giuridico” che, enfatizzando i diritti a scapito del “diritto”, fa spesso delle leggi un mero accordo tra interessi contrapposti, piegandole a logiche di interesse e di mera utilità, il pensiero giuridico deve rinnovarsi alla luce di un autentico personalismo, qual è quello elaborato dal Roveretano, che fa di lui un anticipatore del Vaticano II e in particolare della Costituzione Gaudium et Spes. L’unità e centralità della persona trovano qui la loro conferma e la loro necessaria espansione. Vedere la persona in modo unitario e concepirla come il centro del mondo e del reale, significa non solo elaborare una teoria conforme alla sua dignità, ma anche riconoscere la persona come diritto sussistente. Davanti alla caduta di tensione etica, sociale, politica e civile, denunciata da Rosmini e riscontrabile anche ai nostri giorni, dobbiamo riaffermare i diritti della persona e ripensarli alla luce di un’antropologia integrale, per riportarli nell’alveo di una vera promozione umana ed evitare che “impazziscano”, come denunciato da Benedetto XVI, volgendosi contro l’uomo.

Fonte: Avvenire.it

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Che cosa significa “meditare” per un cristiano?

 

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