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A. D’Avenia : : ULTIMO BANCO – 2. Oreste o del futuro

Che cosa devo fare? È la domanda che ricevo più spesso dai ragazzi per le scelte che contano: scuola, università, lavoro, ma anche amicizie, relazioni... È l’essenza dell’essere giovani: chiedere a chi precede il senso da dare al futuro.

Nel 458 a.C. questa domanda echeggiò nel silenzio del teatro di Atene, a pronunciarla è Oreste, un giovane che deve scegliere tra uccidere la madre per vendicare il padre o disobbedire al comando ricevuto direttamente dal dio Apollo. Il suo miglior amico Pilade, a cui Oreste pone il dilemma, risponde che è meglio farsi nemici tutti gli uomini piuttosto che gli dei. L’alternativa è tragica: l’orrore del sangue materno o la persecuzione divina… ma scegliere è necessario.

Eschilo, che quell’anno trionfò nel concorso teatrale col suo capolavoro, racconta la cruenta vicenda di una famiglia nella trilogia di tragedie detta Orestea, perché tutto ruota attorno alla decisione del malcapitato ragazzo. Il padre Agamennone, partito per Troia a capo dell’esercito greco per riavere indietro Elena, moglie del fratello Menelao, torna vincitore nella città di cui è re. Qui, sua moglie Clitemnestra si vendica del fatto che il marito ha sacrificato la loro figlia Ifigenia per vincere la guerra e, complice l’amante Egisto, lo assassina. La catena di sangue non si ferma e il dio Apollo incarica Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra, di vendicare il padre. Il ragazzo deve scegliere tra matricidio e sacrilegio: «che cosa devo fare (tì dràso)?» (Coefore v.899). Si tratta del futuro di drao, uno dei verbi che i Greci usavano per dire «fare». Noi usiamo un solo verbo «fare» (soprattutto i miei alunni) per fenomeni molto eterogenei: torte, gite, poesie, sorprese, figli, anni, sacrifici… I Greci, per dire «fare», avevano due verbi: poìeo (da cui poesia) per il fare creativo, pràsso (da cui pragmatico) per quello operativo. E quindi drào (da cui dramma)? Eschilo lo usa per il fare necessario, determinato dal destino, infatti la domanda di Oreste non è un semplice che farò ma un che cosa mi deciderò/obbligherò a fare. Il Futuro è il tempo grammaticale dei giovani, ma il modo usato da Oreste è il Tragico, qualsiasi cosa scelga. L’essenza della tragedia è infatti dover decidere tra opzioni ugualmente senza speranza, come in uno degli scatti più drammatici dell’11 settembre, nel quale vediamo un uomo lanciarsi nel vuoto pur di non bruciare vivo: The falling man. Anche noi, a volte, ci sentiamo così e scegliamo ciò che in quel momento ci sembra il male minore.

Ma un altro ragazzo, cinque secoli dopo Oreste, ha la stessa domanda. Anche lui usa il futuro, ma questa volta il verbo è poìeo: quello del fare libero e creativo, che nasce dal desiderio di realizzare qualcosa di inedito a cui ci si sente chiamati. Di questo giovane racconta Marco nel Vangelo (10,17), quando va a cercare Cristo per porgli la domanda sul destino: «Che cosa devo fare (Tì poièso) per avere la vita eterna?». La vita eterna non è quella biologica protratta quantitativamente all’infinito, né quella che viene solo dopo la morte, ma la vita che già adesso non conosce infelicità e usura, perché qualitativamente infinita, cioè piena di senso. La traduzione di entrambe le domande suona «Che farò?», ma la scelta di Oreste è «drammatica», imposta, mentre quella del giovane di Marco è «poetica», libera. Se, per esempio, oggi un ragazzo rinuncia alle proprie passioni/attitudini guidato solo dalla convenienza (pressioni culturali, familiari, paure, soldi…), non fa altro che una scelta «drammatica»: rinuncia a se stesso e la libertà, dissolta dalla necessità, prima o poi lo metterà in crisi. Se fa invece una scelta «poetica», più incerta e pericolosa, sperimenterà la paura della libertà, propria di chi rischia per qualcosa a cui si sente chiamato. Le scelte che hanno a che fare col senso della vita sono drammatiche quando subiscono il destino, poetiche quando inaugurano una destinazione. Oreste è prigioniero di un passato che non ha scelto e obbedisce al comando divino per timore, il giovane senza nome cerca il futuro e riceve da Gesù l’invito a diventare suo discepolo. Entrambi sono di fronte a scelte decisive per la vita, ma mentre il primo deve scegliere tra due mali, l’altro è libero di scegliere tra il bene che ha già, ma non gli basta, e un bene più grande e rischioso.

Ognuno di noi deve affrontare scelte che possono mettere in crisi. Ma è vitale renderle «poetiche», anche quando sono drammatiche. Le scelte poetiche nascono dal desiderio di «fare», con la propria vita, qualcosa di nuovo-vero-buono-bello per noi e per gli altri. Esse danno gioia a prescindere dal risultato perché hanno il senso in se stesse: fanno crescere la vita in noi e attorno a noi. Non occupare l’ultimo banco dell’esistenza comporta «fare poeticamente», cioè scegliere, rischi e fatiche annessi, ciò che porta la vita, nostra e altrui, a pieno compimento: così comincia la vita eterna.

Fonte: Corriere.it

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