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Don Loffredo e «La Paranza»: così le Catacombe attraggono turisti
— 20 Giugno 2019— pubblicato da Redazione. —
Al parroco del Rione Sanità si deve la più riuscita impresa di volontariato sociale di Napoli. Ha tolto dalla strada una sessantina di ragazzi e resuscitato un quartiere
Don Antonio Loffredo agisce come un santo. Non un santo del genere ascesi ed estasi, ma di quelli guerrieri. A lui si deve la più riuscita impresa di volontariato sociale di Napoli, e forse d’Italia. Girano ormai una sessantina di ragazzi, ragazzi di strada, o meglio tolti dalla strada, intorno alla «Paranza», la cooperativa che ha trasformato le Catacombe di San Gennaro da misterioso e misconosciuto sito in una delle maggiori attrazioni turistiche della città. Centotrentamila visitatori all’anno, occupazione e lavoro per giovani che altrimenti l’avrebbero cercata nell’altra e meno onorata società, la camorra; e soprattutto un grande investimento sociale, nel senso che sta cambiando il quartiere della Sanità, non esattamente un posto per angeli: «Perché decine di migliaia di turisti in giro per il rione tutto l’anno ti spingono a comportarti diversamente, a tenere più pulite le strade, ad aprire un negozio e a concentrarti sul guadagno lecito. Insomma, i miei ragazzi stanno cambiando non solo la loro vita, ma anche la comunità in cui vivono».
Il «sociale che rende»
Il punto di questa storia sta proprio qui. Troppo spesso confondiamo l’intervento nel sociale con la beneficenza. La misericordia non può essere certo estranea a nessun uomo o donna di buona volontà. Ma l’impresa sociale è qualcosa di più. Ciò che fa la differenza è il rendimento dell’investimento, la qualità del risultato. L’impresa sociale la devi giudicare dal prodotto. Essendo un prete, don Antonio sceglie un’altra definizione invece di produttività: generatività, che è una bella parola perché fa pensare a un parto. «Ermanno Rea ha scritto che la Sanità è Napoli al quadrato. Quindi quello che stiamo facendo qui lo si può e lo si deve fare ovunque, e infatti lo si sta facendo». La città pullula di iniziative di autogoverno della solidarietà, se così si può dire. Carlo Borgomeo, che le conosce tutte perché le ha quasi tutte finanziate con la sua Fondazione con il Sud, me ne elenca molte. L’Orsa Maggiore, per esempio, che lavora per l’inclusione sociale dei ragazzi disabili, ed è ospitata nel bene confiscato alla camorra più bello del mondo, la ex Villa del boss Zaza in via Petrarca, vista mozzafiato sul Golfo. Oppure il consorzio Core, che riciclando stracci e altro occupa ormai duecento persone e investe gli utili in progetti sociali. Oppure Dedalus, accoglienza e formazione di migranti in un ex canapificio a Porta Capuana.
La carne e le carte
A Napoli e Campania il bisogno sociale è così profondo ed esplosivo che spesso c’è la tentazione di risolverlo con trasferimenti monetari. Ma la povertà è una cosa più complessa, spesso è educativa prima ancora che economica, civile oltre che sociale. Per questo strumenti come il reddito di cittadinanza sembrano appena scalfirla. Le politiche pubbliche appaiono schizofreniche. Mentre il governo fa deficit per finanziare l’assistenza, le Regioni non riescono a spendere le risorse europee destinate all’inclusione. «Per questo ti dicevo che può fare di più la sussidiarietà. Facciamo all’interno della comunità ciò che sappiamo fare meglio. L’ho detto anche al Vaticano, quando un monsignore zelante si è messo a guardare le carte e ha scoperto che la cooperativa La Paranza non versa la metà degli incassi a Roma e ci ha chiesto gli arretrati di dieci anni, che le sarebbero dovuti per la manutenzione. Ma la manutenzione ce la facciamo noi, con un’altra cooperativa, l’Officina dei talenti. E se lo sappiamo fare meglio noi, lasciatecelo fare. Questo è il problema che si è aperto, tra la Chiesa di carte e la Chiesa di carne» (ci sono anch’io, tra le decine di migliaia di firme della petizione rivolta a Francesco perché prevalga la Chiesa di carne, e forse ce la faremo).
«Vedi – continua infervorato don Antonio – la soluzione deve venire dal basso. Sempre dal basso. Specialmente a Napoli. Sotto la cenere di questa città c’è il fuoco. Napoli non è morta. Se la vogliono succhiare come una caramella. Ma non glielo consentiremo. Il potere publico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi, codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune non sa come gestirlo; ma dàllo al quartiere, dico io. Facciamo come con le Catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze. Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi dovrò lasciare. Ma loro hanno imparato, uno è appena stato in Giappone, invitato per tenere una lezione su come si fa. E pensa che erano ragazzi che avevano lasciato la scuola, che vivevano per strada, che si consideravano già persi. Noi siamo dei sognatori, ma sappiamo guardare ai conti. Io sono commercialista nell’anima».
Per spiegarmi come funziona il suo business mi racconta la storia delle canoniche. Siccome ha cinque parrocchie, ha pure cinque case. Potrebbe affittare le quattro superflue, e dare il ricavato in beneficenza. Oppure fare diversamente: una la usa come foresteria-collegio per giovani che studiano da musicisti di fila nelle orchestre. «Meglio 90 ragazzi che si costruiscono un sogno, lasciando un segno, o 500 euro al mese e l’interesse composto? Che cosa vale di più? Io non ho dubbi». L’idea è produrre infrastrutture civili per il territorio. Usando la forza lavoro che c’è. Si lavora con le pietre di scarto per costruire l’edificio. E questi ragazzi di padre Loffredo non potrebbero essere meglio definiti. Innescare un circuito virtuoso. Come nella sacrestia di don Antonio. «Vennero da me gli educatori di strada, veri e propri cacciatori di giovani problematici, mi dissero: c’è un gruppo che vorrebbe fare la boxe e non trova un posto. Io risposi: il posto ve lo do io, nella mia sacrestia. Però a un patto, che scelgo io gli istruttori. E loro dissero va bene, chi sono? Poliziotti, risposi io. Così adesso guardie e ladri incrociano i guanti e si stringono la mano, così la speranza ha fatto un altro passo avanti. E la speranza, diceva Sant’Agostino, ha due figli: lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarla».
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