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I giovani che lasciano la casa e provano la vita comunitaria

Trovare una proposta educativa che scommetta sulla coabitazione è abbandonare la precedente area di comfort Come nei vangeli, quindi, dovrà esistere un lasciare concreto e profetico i legami di sangue per dire: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»

Uscire dall’abitazione dei genitori e intraprendere la propria strada: nuovi percorsi Uscire di casa ha la valenza di un rito di passaggio, quasi di un’iniziazione alla responsabilità. Fino a qualche decennio fa, il servizio militare obbligatorio portava dalla giovinezza spensierata all’età delle scelte definitive. Non lo stesso per il mondo femminile: quel modello non prevedeva pari opportunità. Di fatto, le ragazze passavano a un’altra casa quando il padre le consegnava al marito per formare una nuova famiglia. Anche oggi il simbolo dell’uscita si rivela propulsivo dell’azione e del cambiamento, ma diviene necessario immaginare come i giovani trovino una casa diversa da quella di origine. Il documento finale dell’ultimo Sinodo contiene in tal senso delle indicazioni da raccogliere con un certo coraggio. Al n. 138 l’immagine della casa appare più di una metafora: «L’anelito alla fraternità, tante volte emerso dall’ascolto sinodale dei giovani, chiede alla Chiesa di essere ‘madre per tutti e casa per molti’ (Francesco, Evangelii gaudium, n. 287): la pastorale ha il compito di realizzare nella storia la maternità universale della Chiesa attraverso gesti concreti e profetici di accoglienza gioiosa e quotidiana che ne fanno una casa per i giovani ». Come nei vangeli, quindi, dovrà esistere un lasciare concreto e profetico i legami di sangue per dire: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3, 34-35). Non si tratta della chiamata alla vita religiosa, ma della transizione a una quotidianità cristiana: «In un mondo frammentato che produce dispersione e moltiplica le appartenenze, i giovani hanno bisogno di essere aiutati a unificare la vita, leggendo in profondità le esperienze quotidiane e facendo discernimento» (n. 141).

Si diffondono nelle diocesi italiane diverse esperienze di vita comune. Nonostante la breve durata – alcuni giorni, al massimo qualche settimana – non mancano i segni della loro efficacia. Ne parla così Anna, 21 anni: «L’esigenza di stare assieme forse è la cosa che mi è piaciuta di più. Il valore di una qualsiasi famiglia è proprio l’unione, la ricerca di legami. Alcune sere la stanchezza si sostituiva con la voglia di parlare, conoscere meglio gli altri, cantare assieme, studiare di più o anche giocare. Mi sentivo parte di una vera famiglia e ho scoperto il piacere di stringere rapporti anche con chi non avevo mai visto. Tutti mi hanno chiamata per nome, mi riconoscevano. Ho poi rafforzato le cose essenziali che condivido di solito con i veri amici». Andrea, 25 anni: «Il letto esercita sempre una dolce attrattiva, specie alle 6.15 del mattino. Eppure, alzarmi e dare il buongiorno agli amici, recitare le Lodi insieme, trovarci a colazione e raccontare cosa avremmo fatto durante la giornata è stato un desiderio troppo forte. Ecco perché per me la convivenza è gioia vera: anche i piccoli gesti della routine hanno un significato più vero e profondo». Sono parole semplici, dense di entusiasmo, che meritano di intrecciarsi alla consapevolezza cui sono giunti i vescovi: «Molte volte è risuonato nell’aula sinodale un accorato appello a investire con generosità per i giovani passione educativa, tempo prolungato e anche risorse economiche. Raccogliendo vari contributi e desideri emersi durante il confronto sinodale, insieme all’ascolto di esperienze qualificate già in atto, il Sinodo propone con convinzione a tutte le Chiese particolari, alle congregazioni religiose, ai movimenti, alle associazioni e ad altri soggetti ecclesiali di offrire ai giovani […] un tempo destinato alla maturazione della vita cristiana adulta. Dovrebbe prevedere un distacco prolungato dagli ambienti e dalle relazioni abituali ed essere costruita intorno ad almeno tre cardini indispensabili: un’esperienza di vita fraterna condivisa con educatori adulti che sia essenziale, sobria e rispettosa della casa comune; una proposta apostolica forte e significativa da vivere insieme; un’offerta di spiritualità radicata nella preghiera e nella vita sacramentale» (161).

Si tratterebbe di un netto spartiacque tra due età della vita che oggi vivono sovrapposizioni allarmanti: l’adolescenza e la giovinezza. Tra le due c’è un crinale, non solo immaginario, che la pastorale può maggiormente valorizzare. La maggiore età va trattata per quello che è: un’età maggiore, che chiede un salto qualitativo, tempo che non si può definire solo per negazione – non adolescenza e non età adulta – ma per la sua positiva consistenza. Con la maggiore età, i nostri ragazzi possono votare, entrano in possesso della patente, ottengono piena capacità di agire anche in ambito fi- nanziario: in breve, hanno la possibilità di allontanarsi da casa. Gli ultimi dati Eurostat confermano però un fenomeno noto: tra i 18 e i 34 anni il 67,3% degli Italiani vive ancora in casa dei genitori, contro una media europea del 47,9%. Sotto lo stesso tetto e nella prossimità mai interrotta possono però silenziosamente crescere siderali distanze, dense di risentimento e di sordo disprezzo. Difficilmente prima dei 25 anni i giovani riescono a realizzare scelte importanti per la loro vita: molto spesso ciò non appare loro come un problema, ma come una condizione naturale, inevitabile. Rispetto alle generazioni precedenti sperimentano ampie libertà, ma anche paure e disagi in passato sconosciuti: la famiglia di origine rimane un’area di comfort preferibile al rischio dei primi passi di autonomia, magari all’insegna di una certa sobrietà e della condivisione con altri giovani. D’altra parte l’incertezza chiede una presenza, una risposta, un soccorso. Ogni passaggio – anche quello dall’adolescenza alla maggiore età – ha quindi necessità di cura e accompagnamento: lasciare costituisce sempre un momento di crisi, perché chiede, nei distacchi, di tornare a essere incompleti.

Una Chiesa che cerchi i giovani là dove si trovano può allora cambiare passo rispetto al tema della loro casa. Ciò comporta, anzitutto, di non demonizzare la voglia di partire; educare le famiglie a ricono- scere una stagione della vita con cui in passato non era necessario fare i conti; stimare maggiormente la provvisorietà, connaturale a un popolo di pellegrini: «Non abbiamo quaggiù una dimora stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). Significa un rovesciamento della pastorale ordinaria, che metta al centro l’essere insieme come nuova famiglia, oltre il sangue, e lasci emergere dalla quotidianità –lavoro, affetti, riposo – il di più (magis) del Regno di Dio. Canoniche da ristrutturare per convivenze brevi o prolungate; collegi universitari da strappare a una routine anonima e puramente funzionale; seminari pieni da rendere più famiglia; seminari vuoti da convertire a giovani disposti a coltivare l’interiorità e la dedizione agli ultimi; conventi aperti all’ospitalità e appartamenti sfitti per chi vuol condividere una regola oltre a dei metri quadri. Sino a investimenti nel cohousing tra famiglie che nascono e persone fragili, tra chi ha molti amici e chi è rimasto solo: livelli diversi d’intimità, per cui l’avere una propria stanza può accompagnarsi a condividere un soggiorno, la lavanderia, un terrazzo, il pianerottolo, un giardino da coltivare. L’architettura può dare forma ai sogni, quando incontra lo spirito.

Certo, un trasloco non produce necessariamente apertura. Claudio racconta come andare a vivere in collegio gli sia stato di grande aiuto. Dopo più di un anno in casa con altri studenti, ammette: «Il rischio, lasciando casa, è di trovarsi a replicare presto le piatte dinamiche d’appartamento: le stesse persone, le stesse cose. Diverso è trovare una proposta educativa che scommetta sulla coabitazione. È abbandonare la precedente area di comfort e intraprendere la propria strada, diversa da quella retta via che spesso immaginiamo esser quella per noi tracciata». Una pastorale che si cimenti con forme nuove di vita comune non solo investe nelle relazioni di lunga durata, ma accompagna nella responsabilità verso le cose pratiche e nei confronti di se stessi. Educa allo spessore simbolico delle piccole attenzioni e dei gesti più feriali, così che il loro valore sia interiorizzato quando nessuna norma o voce esterna richiamerà a un ordine della vita. Sobrietà non è, infatti, una costrizione ad avere meno. È concedersi l’opportunità di abbandonare molto di quanto si è già stati e si è accumulato, per trovare in rapporto a Dio e agli altri sempre più se stessi.

Fonte: Avvenire.it

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