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La fragilità dei giovani è lo specchio di quella di noi adulti

Basta ascoltarli, i più giovani, per sapere che stanno male. E che sono sempre più numerosi i ragazzi e le ragazze che non sanno come riempire il vuoto che a tratti si spalanca dentro, sopportare l’assenza di punti di riferimento e la paura di non avere futuro, tenere testa agli sguardi attoniti di chi, invece di riconoscerli per ciò che sono (e non per quello che, secondo noi adulti, dovrebbero essere), li giudica. Basta ascoltarli, dicevo, anche se non è semplice: ascoltare qualcun altro è sempre stato difficile, ma oggi lo è ancora di più. Non è mai stato così complicato fare spazio all’alterità altrui, soprattutto quando mette in discussione le nostre certezze. Accade ai genitori e accade agli insegnanti. Accade anche a me, che pure con i giovani ci passo ore e ore, tra le mura dell’università. E mi vanto di aver capito, pian piano, che il mio vecchio modo di insegnare non funzionava: niente più lezioni magistrali recitate dalla cattedra, ma dialogo continuo in mezzo ai banchi, provando ad ascoltare persino il rumore della loro noia.

Le colpe della sofferenza dei giovani

Sono in tanti a soffrire nell’anima, combattendo quotidianamente con la sensazione di non essere adeguati, di non essere “abbastanza”. C’è chi dice che sia colpa della pandemia: chiusi in casa, costretti alle lezioni online, avrebbero perso gli amici e imparato la solitudine. C’è chi sostiene che sia colpa delle tante guerre, che rubano serenità e speranza. C’è chi indica i cambiamenti climatici e la crisi ambientale, che da tempo hanno sottratto loro il futuro. E via con dati e statistiche: aumento dei disturbi alimentari, aumento dell’autolesionismo, aumento dell’ansia e dell’aggressività. Ma quasi nessuno che provi a fare un po’ di autocritica, invece di prendersela sempre e solo con il sistema. Quand’è che noi insegnanti o genitori inizieremo a farci un esame di coscienza?

La fragilità degli adulti

La fragilità non è solo adolescente. Anzi. Se i ragazzi e le ragazze sono così fragili, è anche perché ci sanno fragili, ma incapaci di prenderne atto. Ci sono cose che passano di generazione in generazione, e i figli, spesso, sono sintomi del malessere degli adulti. Soprattutto quando si è cresciuti a colpi di “forza di volontà”, tacendo le difficoltà che abbiamo attraversato. Essere adulti significa prima di tutto diventare esempi. Ma come si fa a esserlo, se non riusciamo a incarnare ciò che diciamo? Quand’è che capiremo che, se vogliamo davvero aiutare i nostri giovani, dobbiamo prima di tutto aiutare noi stessi? Quand’è che saremo in grado di lasciarli andare per la loro strada, senza voler sempre “fare” o “dire” al posto loro?

E poi c’è l’altro aspetto, quello collettivo. Viviamo tutte e tutti in un mondo segnato dalla precarietà: precarietà del lavoro, precarietà delle relazioni, precarietà del futuro. E siamo noi stessi, adulti, ad aver interiorizzato l’idea che nulla sia stabile, che tutto possa crollare da un momento all’altro. Così siamo noi i primi a rifugiarci nei social, nelle dipendenze, nelle illusioni di un presente senza domani, schiacciati sotto un peso che non abbiamo mai voluto riconoscere fino in fondo. E i ragazzi lo vedono, lo sentono, lo respirano.

C’è sempre qualche benpensante pronto a fare la morale, spiegando che tutto dipende dall’assenza di severità e di regole. Ah, se si potesse tornare indietro, quando mamma e papà erano fermi, inamovibili, e nessuno osava mettere in discussione l’autorità! Ma che esempio siamo capaci di dare? Quale gioia di vivere traspare dai nostri visi? Facile predicare bene, quando siamo noi i primi a fare finta di andare avanti “sempre e comunque”, nascondendo le nostre crepe, e proclamando di volere il “meglio” per noi e per i nostri figli.

I figli e le figlie sono sempre sintomi dei genitori

Il vero problema è che non si possono ascoltare o guardare davvero i più giovani se non si è stati capaci di ascoltare o guardare se stessi. Se non ci si è mai messi in discussione. I figli e le figlie sono sempre sintomi dei genitori, che a loro volta sono sintomi dei propri. Così si va avanti, fino a quando qualcuno, interrompendo il circolo vizioso della ripetizione, prova a fermarsi e a guardarsi dentro. Anche se fa male affacciarsi sul precipizio delle proprie fratture e accettare di sentire fino in fondo il dolore che ci si porta dentro. Ma è da lì che bisogna ricominciare, se vogliamo davvero aiutare i più giovani. È con le nostre dipendenze, le nostre fragilità e le nostre contraddizioni che dobbiamo fare i conti, prima ancora di sbattere in faccia ai nostri figli o alle nostre studentesse le loro.

Fonte: Michela Marzano | Reppublica.it

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