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Il “rischio” del bello

A Brescia una summer school, con docenti da tutta Italia e dal Portogallo, per educarsi a riconoscere il “mistero” che abita ogni forma di espressione artistica. Da Caravaggio a Flannery O’Connor, spiegati da critici e maestri

“Arte e realtà. La bellezza per conoscere”. Questo il titolo della summer school organizzata a Brescia, a luglio, dall’associazione Il rischio educativo, in collaborazione con Universitas-University e la Fondazione San Benedetto, a cui hanno partecipato oltre 70 insegnanti di ogni ordine e grado, dirigenti scolastici e coordinatori didattici da diverse città italiane, compreso un gruppo di docenti di Lisbona. A tema l’esperienza della bellezza, declinata nelle varie forme di espressione artistica, come strumento di conoscenza.

L’incontro con l’arte visiva

In un’epoca in cui l’arte visiva ha rotto i legami con il passato, apparendo ai più ostile se non addirittura “patologicamente nichilista”, com’è possibile rintracciare una bellezza che parli ancora all’uomo? Così abbiamo scoperto che i “tagli” di Lucio Fontana non sono solo buchi nella tela, il gesto rabbioso e istintivo di qualcuno che vuole distruggere, ma la possibilità di rompere la bidimensionalità per andare oltre la tela in una ricerca di senso e di assoluto dell’artista che è, innanzitutto, profondamente uomo.

Giuseppe Frangi, giornalista e presidente dell’associazione Giovanni Testori, ha intrecciato i fili di un rapporto tra l’arte antica e la contemporaneità citando alcuni esempi di dialogo tra due mondi apparentemente inconciliabili: il ciclo Seagram di Mark Rothko, nato osservando per ore l’atrio della biblioteca Laurenziana di Michelangelo; le tele di Gerard Richter, che rielaborano l’Annunciazione di Tiziano della Scuola Grande di San Rocco a Venezia; oppure ancora il rapporto “affettivo” tra Francis Bacon e il crocifisso di Cimabue, tanto intenso da fargli devolvere un premio ottenuto in favore del restauro dello stesso dopo l’alluvione del 1966.

Un rapporto vivo tra differenti epoche artistiche può realmente costruire una conoscenza nuova, come ha dimostrato Nadia Righi raccontando alcuni progetti sviluppati dal Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano di cui è direttore. In particolare, la scelta della Deposizione del Tintoretto, portata al Museo nella scorsa Quaresima e posta in dialogo con quattro giovani artisti contemporanei.

L’incontro con la pittura è proseguito con la visita alla Pinacoteca Tosio Martinengo. Dove, tra le tele dei maestri rinascimentali bresciani, è emerso un amore al reale in tutta la sua concretezza, come nelle pieghe dei veli argentei che vestono santi e peccatrici nelle tele di Moretto e Romanino.

Romanino è stato il protagonista della prima serata, nella cappella del Santissimo Sacramento della chiesa di San Giovanni Battista da lui decorata assieme al Moretto. In questa suggestiva cornice, abbiamo visto rivivere, con una lettura espressiva a due voci, un dialogo programmato (ma mai avvenuto) tra Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini proprio sull’anticonformismo e sulla modernità di questo pittore. Pasolini, dopo aver visitato la mostra del 1965 a Brescia, rimase colpito dalla varietà e dalla drammaticità della pittura di Romanino e lo descrisse come un artista contraddittorio e drammatico. È stato suggestivo ascoltare la forza e la passione delle parole con cui i due grandi autori hanno tentato di penetrare nel mondo del pittore bresciano; scritti che rappresentano un modello e un invito a porsi in una posizione di indagine appassionata di fronte all’arte, quasi come investigatori di bellezza e verità.

Nella seconda giornata, Marco Bona Castellotti, docente di Storia dell’Arte Moderna alla Cattolica di Milano, ha tratteggiato le “pennellate” di un viaggio nella poetica di Caravaggio, dominata da un realismo per certi aspetti unico. E non sono mancati riferimenti alle più recenti scoperte in merito alla vita del maestro lombardo così come alla sua eredità nella cultura contemporanea: per esempio, nelle ultime scene del film Mamma Roma di Pasolini.

Media, cinema e fotografia 

Di media si è parlato nel pomeriggio. Massimo Morelli, regista Rai, si è interrogato sullo tsunami di cambiamenti accaduto negli ultimi venticinque anni e con impatti significativi su tutta la società. L’avvento delle piattaforme streaming, l’intelligenza artificiale e l’accelerazione tecnologica in generale hanno promosso alcuni rischi tra cui la perdita di profondità narrativa, la standardizzazione dei contenuti e l’omologazione culturale.

Luca Fiore, critico e curatore di fotografia, ha poi guidato la discussione attorno all’opera del fotografo statunitense Walker Evans, figura importante per comprendere la natura enigmatica della fotografia del XX secolo. Forgiando un approccio che ha simultaneamente abbracciato la documentazione diretta delle periferie americane e la profonda aspirazione artistica, tanto da definire il suo stile come “documentary style”. Con la visione di alcuni scatti di Evans, per esempio quelli degli anni della grande Depressione negli Stati Uniti su incarico della Farm Security Administration, si è potuto assistere nuovamente alla trasformazione della realtà visibile in una forma d’arte duratura e significativa.

Educare attraverso musica e letteratura 

Non solo di pittura, architettura e fotografia, ma anche di letteratura e musica si è parlato a Brescia. Nella terza giornata, il maestro Massimo Mazza, Direttore d’orchestra e docente, ha esordito dicendo che la musica semplicemente «è». Attraverso alcuni video, per esempio della la Quinta sinfonia di Beethoven o della n. 40 di Mozart, ha illustrato come possiedano una “chiave di lettura”, un insieme di note, un ritmo che, dichiarato già nelle prime battute, ne guida lo svolgimento in tutta la loro profondità.

Il maestro Pippo Molino, compositore e direttore di coro, ha poi spiegato, attraverso una sua opera, come nasce una composizione musicale. «Quello che mi ha sempre colpito e mi colpisce nella musica è che, nei casi migliori, è un incontro –  ha detto -. Capire, riconoscersi nella vera musica, esattamente come farla (è quasi l’unica arte in cui non basta il creatore, ma occorre l’interprete) è certamente legato al senso religioso di ognuno. Certo, per alcuni, vuol dire aver bisogno di Dio e pregare».

Dal testo musicale al testo scritto: a Brescia si è parlato della scrittrice americana Flannery O’Connor. In una grande storia, come ha ricordato lo scrittore Luca Doninelli, non esistono dettagli, quindi la cravatta di un personaggio di un romanzo o la sua pettinatura non sono qualcosa di superfluo, perché ogni aspetto concorre al tutto. Le parole di un libro svelano, rivelano, e gli artisti si occupano dell’invisibile nel visibile, in un equilibrio in cui il tutto è sempre più della somma delle parti. Eppure per quanto si possa penetrare un’opera e per quanto essa ci possa far conoscere, alla fine resta sempre un ultimo segreto, quel mistero che abita il mondo.

Ed è proprio la scrittrice americana di Savannah che ci rivela come questo segreto può essere scomodo, ma allo stesso tempo necessario per conoscere. Dopo una vita nella quale non sono mancati momenti di sofferenza, racconta Elisa Buzzi, docente all’Università di Brescia, per Flannery O’Connor è chiaro che il mistero abita la vita di ogni cosa. Questo mistero (scritto con la “m” minuscola nei suoi testi), incarnato nella materia, si rivela nel quotidiano, nel dolore, può avere il volto deforme della malattia, si manifesta insomma come e dove non ce lo aspettiamo.

L’arte in tutte le sue forme dunque innanzitutto c’è e con la sua stessa esistenza chiede all’uomo di conoscerla, prima ancora di formulare ipotesi o discorsi, e di incontrare l’artista che si cela dietro e dentro l’opera.

Fonte: Maddalena Colozzi – Nicola De Bei | Clonline.org

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