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«Noi, palestinesi, pronti a un’intesa con Israele. Sì a uno Stato unico»

«Un’intesa con Israele? Dipendesse da me, la firmerei all’istante. E se ora gli israeliani respingono la formula dei due popoli in due Stati sono pronto ad accettare e siglare un accordo per uno Stato unico, nel quale tutti i cittadini abbiano uguali diritti. Con Gerusalemme capitale». Hussein al-Sheikh per 18 anni è stato l’uomo nell’ombra. Per tutti era “Abu Jahed”. Dal 26 aprile è “il predestinato”. Per la prima volta nella sua tormentata storia a Ramallah c’è un vicepresidente. Su proposta del 90enne leader Abu Mazen, il Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ha approvato la nomina del 64enne figlio di profughi a vicepresidente dell’Organizzazione e vicepresidente dello Stato di Palestina. Ma non è di “lasciti” che vuol parlare nella sua prima intervista a neanche un mese da erede designato del presidente Mahmoud Abbas.

Nemico giurato – e ricambiato – di Hamas: «Il 7 ottobre è stato anche un attacco contro l’autorità nazionale palestinese». Non si è fatto mancare critiche per le sue relazioni che vanno da Washington a Bruxelles ai sauditi. Anche per questo non tutti lo amano. Da anni guida l’ufficio incaricato di negoziare con Tel Aviv la concessione di ogni singolo permesso che consenta ai palestinesi di entrare in Israele per lavoro e cure mediche. I detrattori lo accusano di cooperare con gli occupanti. In un’intervista del 2022 disse che non c’è altra scelta, «se non quella di dialogare con Israele per aiutare i palestinesi che hanno bisogno». Dopo quasi 11 anni di carcere duro per la partecipazione alla resistenza armata – nel corso dei quali ha imparato l’ebraico – non è quel tipo d’uomo che si lascia rimproverare dagli ultimi arrivati. Modi informali, nessuna preclusione a domande e osservazioni, tra un caffè e qualche tiro alla sigaretta elettronica, indicherà spesso la foto panoramica della “Città Santa” descritta con la voce bassa e baritonale che fa calare il silenzio: il “Muro Occidentale” caro agli ebrei, la cupola d’oro sulla Spianata delle Moschee, le vetrate della Basilica del Santo Sepolcro. «È tutto lì», ripeterà.

L’esercito Israeliano ha appena sparato a poca distanza da una delegazione diplomatica internazionale a Jenin. Il giorno prima l’Europa si era espressa in coro – con il silenzio di Roma e Berlino – contro l’operazione militare a Gaza. Ieri l’Italia ha però aderito alla mozione dell’Oms con cui si condannano gli attacchi contro gli ospedali. Come valuta questi sviluppi?

Condanniamo fermamente gli spari delle forze di occupazione israeliane contro gli inviati diplomatici arabi e internazionali in visita nel governatorato di Jenin. Invitiamo la comunità internazionale a porre fine a questa brutale irruzione delle forze di occupazione nei territori palestinesi. Tuttavia non nascondo la sorpresa per la reazione europea di queste ultime ore.

Non se l’aspettava più?

Mi hanno colpito in particolare il Regno Unito e la Francia che si sono espressi con toni molto severi rivolgendosi a Netanyahu. Ma mi ha anche sorpreso l’Italia. Il vostro Paese ha una tradizione di amicizia e solidarietà con il nostro popolo. Eppure il vostro governo non si è unito ai Paesi che hanno chiesto di fermare le operazioni militari a Gaza e fare entrare immediatamente gli aiuti umanitari alla popolazione che vive sotto le bombe, tra le macerie e nella fame.

 

Perché crede che la posizione internazionale sposata anche dal Canada – stavolta senza rimproveri dagli Usa – sia così rilevante?

Noi accogliamo con favore anche la dichiarazione relativa alle attività di insediamento israeliano in Cisgiordania, la cui continuazione, a nostro avviso, sta annientando la soluzione dei due Stati, costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e della legittimità internazionale, e costituisce un ostacolo alla pace, alla sicurezza e alla stabilità. Ora però invitiamo questi Paesi a riconoscere lo Stato di Palestina.

Il 7 ottobre 2023 resterà una data spartiacque. Il bagno di sangue voluto da Hamas e gli ostaggi trascinati nella Striscia potevano restare impuniti?

Rispondo con un’altra domanda. Il 7 ottobre può giustificare il genocidio? È questa una reazione proporzionata? Quello che accade è sotto gli occhi di tutti. Quando ci fu il primo cessate il fuoco centinaia di migliaia di palestinesi tornarono nel Nord della Striscia, e cosa hanno trovato? Niente. Tutto distrutto. La cosa più urgente è fermare la guerra. Sono necessari sforzi internazionali concertati, per affrontare la crisi umanitaria e costruire una risposta sostenibile per soddisfare le esigenze dei civili che soffrono in condizioni tragiche.

Come giudica le mosse dell’Amministrazione americana? Sembra crescere l’insofferenza di Trump verso Netanyahu e alcune fonti Usa non escludono in futuro il riconoscimento dello Stato palestinese. Lei è accreditato di buone relazioni anche con Washington. Cosa prevede?

Sinceramente credo che Trump sia impegnato a fare fronte a questioni di politica interna e poi tentare di venire a capo della guerra in Ucraina e del dossier aperto con l’Iran. Per il momento osserviamo con cautela in attesa che siano più chiare le scelte di politica estera del presidente Trump.

Papa Leone XIV è tornato a parlare di Gaza, chiedendo di fermare gli attacchi, liberare gli ostaggi israeliani e fare entrare con urgenza gli aiuti umanitari.

Stiamo lavorando per incontrarlo presto. Siamo grati per le sue parole e per l’impegno della Chiesa. Non osservo le cose in una prospettiva ideologica. Non ho niente contro gli ebrei, ma ho il diritto e il dovere di criticare le politiche di Israele. Così come dobbiamo lavorare per proteggere la presenza dei cristiani e incentivare anche il ritorno in questi luoghi dei cristiani che sono emigrati.

In Cisgiordania non mancano le critiche all’Autorità nazionale palestinese, mentre forze come Hamas raccolgono simpatie tra i più giovani. Come lo spiega?

Il nostro compito adesso è quello di rilanciare le iniziative per unificare il popolo palestinese. Non dobbiamo lasciarci dividere. Si apre una stagione nella quale bisogna costruire unità. La politica di Israele, con la guerra a Gaza e l’occupazione illegale della terra palestinese, ha anche lo scopo di creare fratture tra di noi. Ma non dobbiamo cedere. Con l’attuale leadership israeliana non ho speranza che si possa costruire qualcosa. Ma non c’è alternativa alla prospettiva di un accordo. Arafat e Rabin ci erano riusciti ma entrambi sono stati uccisi.

Entrambi?

Rabin è stato ucciso dagli estremisti israeliani che ora determinano le scelte politiche. E anche Arafat è stato avvelenato e ucciso da Israele, ne sono più che certo.

C’è chi rievoca la lotta di Yasser Arafat e la contrappone all’Amministrazione palestinese di oggi, accusata di inefficenze e remissività. Quale ricordo di lui la guiderà nel suo incarico?

Yasser Arafat è stato il leader che ha unificato i palestinesi, li ha resi popolo unito, che ha combattuto e resistito, ma che ha saputo dialogare con Israele e firmare accordi nonostante anche alcune resistenze interne. Noi abbiamo bisogno di quello spirito e di quel coraggio.

Fonte: Nello Scavo, inviato a Ramallah (Cisgiordania) | Avvenire.it

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