Cento anni fa, nel 1925, veniva pubblicato, a puntate, il romanzo Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. L’autore lo definiva come “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”. In effetti è un’opera che rappresenta bene la svolta culturale e spirituale che si verificò all’inizio del Novecento.
Sono gli anni che vedono pure l’irrompere della psicoanalisi e della nuova fisica di Einstein che mette in discussione i pilastri del pensiero moderno (il tempo e lo spazio come grandezze indipendenti e assolute).
Un geniale critico letterario, Giacomo Debenedetti, nel suo saggio “Commemorazione provvisoria del personaggio uomo”, scriveva: “la nostra tesi è che oggi la narrativa e la scienza sembrano trasmettere, con due codici diversi, lo stesso tipo di informazioni su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo”.
L’UOMO IN FRANTUMI
Cos’era accaduto agli inizi del Novecento? “Il personaggio classico” dei romanzi dell’Ottocento, che era “omogeneo compatto, dalla sagoma d’ingombro balzacchiana, era sostituito da un succedersi di atomi psicologici o figurativi o figurati”.
Del resto anche nella pittura l’inizio del XX secolo vede il dissolvimento o la frantumazione della figura umana. Franz Marc – che insieme a Vassilij Kandinskij nel 1911 fondò il Blaue Reiter – affermava che l’uomo è “brutto”.
Ancora più dirompente e provocatorio era il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti: “Distruggere nella letteratura l’‘io’, cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura”.
E così “abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé”.
Aggiungeva: “Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani… È la solidità di una lastra d’acciaio, che c’interessa per se stessa… Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore”.
Ci fu chi ritenne che l’irrompere della macchina, della tecnica fosse spiritualmente dirompente perché sostituto della “vita organica”. Nikolaj Berdjaev osservava: “Solo a uno sguardo superficiale l’automazione appare come una materializzazione nella quale lo spirito muore… A uno sguardo più profondo, l’automazione deve essere concepita come smaterializzazione, come incenerimento della carne del mondo, come sfaldamento della struttura materiale del cosmo”.
Riflessioni simili (almeno in parte) farà anche Martin Heidegger. Ma ovviamente quello smarrimento spirituale d’inizio Novecento non viene documentato solo dalle avanguardie.
Al di là di esse, per la letteratura, Debenedetti rimandava alle considerazioni di Adorno “dove si riconoscono a Proust e Joyce le dovute benemerenze di capostipiti narrativi ‘della dissoluzione della coscienza in elementi disparati’, di antesignani della ‘non-identità’… Ma forse un osservatore meno iniziato noterà che i frantumi dell’esplosione raggiungono, se così si può dire, un’identità più intensa di quella che si è dissolta”.
L’identità “più intensa” di cui parla Debenedetti forse coincide con la domanda “chi sono io” (fra i centomila io che compongono il mosaico della mia figura)e con la domanda sul senso (o non senso) dell’esistenza.
CHI SONO IO?
Il personaggio che parla in prima persona nel pirandelliano Uno, nessuno e centomila ha un nome e un cognome – Vitangelo Moscarda – ha una moglie e un naso. E proprio da uno scambio di battute con la moglie sul suo naso inizia la sua odissea esistenziale che, dal guardarsi allo specchio di casa prosegue con il casuale “sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via” in cui “non riconobbi in prima me stesso”, cosicché “mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva”.
Questa ricerca si concluderà con la dissoluzione del suo stesso nome: “non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto… Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, di domani”. Ormai vivere è “impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare”.
La conclusione del romanzo è suggestiva, ma triste come un ospizio: “La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja… Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”.
Ricorda un altro personaggio pirandelliano che si era rinchiuso in se stesso, “cioè col peggior nemico che ciascuno di noi possa avere” e “ha avuto così nette percezioni dell’inutilità di tutto, e s’è visto così perduto, così solo, circondato da tenebre e schiacciato dal mistero suo stesso e di tutte le cose”.
“SI RICERCA SALVEZZA”
Potrà sembrare il territorio della psicoanalisi. Ma è così? O è semplicemente l’umano? In tempi recenti Franco Fortini (un acuto critico letterario) dirà: “Quando i ragazzi del primo anno di lettere accorrono a frotte laddove si parli dell’interpretazione psicanalitica della letteratura, di questi due temi quel che loro interessa è la psicoanalisi, non la letteratura. È una richiesta a dir poco rispettabile, un’esigenza centrale: si ricerca la salvezza, si vuole sapere per che cosa vivere o morire”.
È impossibile estirpare quelle domande che sono al cuore della natura umana. Costituiscono la nostra essenza. Il mistero incombe sempre, come l’inautenticità e la sete di felicità, come l’insignificanza, la solitudine e l’angoscia. Forse – dicono alcuni – perché l’io non si comprende senza Dio e senza di lui va in “centomila” frantumi sentendosi “nessuno”?
Di certo la parabola della modernità, che iniziò con la cancellazione di Dio e con l’autoglorificazione dell’uomo, si è conclusa, nel secolo scorso, non con l’incoronazione regale dell’umanità, ma con la tragedia delle due guerre mondiali e dei totalitarismi. L’ultimo epilogo del secolo XX è stato il recente crollo del comunismo. Poteva (e ancora potrebbe) essere l’inizio di un nuovo umanesimo.
Fonte: AntonioSocci.com