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L’università italiana tra sfide presenti e future

Quale università italiana tra passato e futuro è la giusta necessità che si evince dalla riflessione di Lorenzo Ornaghi. Si pone, secondo me in modo convincente, la domanda fondamentale per i decisori politici, in questo tempo complesso, di quale ruolo e per quali classi dirigenti l’università e la ricerca scientifica devono svolgere la loro funzione.

Su questo vorrei che si svolgesse una riflessione a tutto campo; una riflessione strategica e libera da condizionamenti, finalizzata ad arrivare e poi a condividere analisi e proposte che si ritengano rilevanti per il futuro delle autonomie universitarie, nel nuovo contesto nazionale, europeo e internazionale. Non quindi, una riflessione per soli addetti ai lavori, ma un confronto aperto e reale su quanto il futuro dell’università e quello del Paese siano legati.

Si dice spesso che viviamo una stagione di intensi, veloci e profondi mutamenti sotto ogni profilo e che l’università deve tenere il passo con il mondo e – aggiungo – deve aiutare tutto il Paese a tenere quel passo: a riconoscere, interpretare e governare i cambiamenti costanti che caratterizzano le società contemporanee. Le domande di fondo che voglio esplicitare subito sono allora: cosa l’Italia si aspetta dal sistema universitario? E come il sistema universitario può contribuire a un futuro prospero, competitivo, sostenibile?

Per far questo serve allontanarsi da questioni ed emergenze gestionali – pur importanti – per condividere un quadro d’insieme, una visione coerente del futuro, una mappa per i percorsi che andrebbero seguiti. L’Università italiana ha alle spalle periodi davvero non facili, perché caratterizzati da una forte crisi strutturale, di sistema e di obiettivi, secondo anche molti analisti e commentatori politici. Una crisi dimostrata spesso dall’eccezionale produzione bibliografica e giornalistica al riguardo, con titoli più o meno funesti che evocavano di volta in volta “tradimenti”, “denigrazioni”, “malattie”, “baronie”, “crisi”, “declino”.

Mai come in questi anni si sono espresse tante opinioni negative sul ruolo delle università, da ogni parte, spesso in modo superficiale e senza riuscire a cogliere i veri punti di analisi e innovazione su funzione e importanza dell’università stessa. Certo – possiamo dire – l’opinione pubblica si è concentrata sulle vicende dell’Università. Il che, normalmente, sarebbe un bene. Ma non sembra che questa attenzione sia stata rivolta alla missione dell’Università italiana e al suo ruolo nella nostra società, di certo rilevantissimo. Purtroppo, occorre dire che l’interesse – talora quasi morboso – che l’opinione pubblica ha rivolto all’università si è concentrato sulle patologie, non sulle buone pratiche, sui pochi mali più che sulle tante virtù che il sistema italiano può legittimamente vantare.

Non voglio con questo negare che ci siano mali o patologie da superare, ma questo va fatto dentro un’analisi seria e complessa, oltre che guardando in modo costruttivo ai cambiamenti che si possono adottare. La crisi dell’università si può sintetizzare, a mio parere, in alcuni punti:

• i tagli finanziari;

• il complesso lavoro di ristrutturazione a seguito dell’applicazione della l. 240/2010 di cui ancora non si è fatto un reale bilancio;

• le pesanti ricadute della crisi sociale ed economica, sia internazionale che nazionale, che generano sfiducia diffusa in tutto il sistema istituzionale, toccando anche le università, il loro funzionamento e il rapporto con gli sbocchi professionali, che ha generato un calo delle immatricolazioni, oggi fortunatamente di nuovo in crescita;

• una persistente malattia “giuridica” dell’Università: interventi puntiformi, spesso dettati da emergenze infrastrutturali e/o di visibilità politica, o da micro-esigenze finanziarie di spending review.

Ma, detto di queste criticità, quello che oggi, nel 2024, necessita come base di confronto per il futuro del nostro sistema universitario è collocarne la visione nella costruzione fondamentale dell’Europa e del ruolo che essa deve poter svolgere nel mondo.

Sono convinta che sia necessario per il bene dell’Italia perseguire con convinzione la strategia globale di sostenibilità, che abbiamo deciso di condividere a livello planetario con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, a partire dall’obiettivo 4, che individua nell’ «educazione di qualità, equa e inclusiva» un fattore trasversale di cambiamento dei modelli di crescita e quindi di preparazione delle classi dirigenti.

Si tratta di una strategia al servizio del Paese: migliorare la qualità del nostro sistema della formazione superiore e della ricerca serve a migliorare la qualità della nostra consapevolezza civile e l’esercizio dei diritti di cittadinanza.

Spesso, il dibattito pubblico su scuola, università e mondo della ricerca è orientato su questioni organizzative, burocratiche, precise e puntuali, che riguardano i vari attori che costituiscono questi settori. È giusto che sia così. Ma è anche opportuno trovare occasioni di confronto qualificato su ciò che la filiera del sapere deve essere per le nostre giovani e i nostri giovani. Su ciò che può rappresentare per loro nel futuro. E quindi per tutta l’Italia e, insisto, sulla formazione delle classi dirigenti.

In società sempre più globalizzate e sempre meno intermediate il sistema di istruzione e formazione deve fornire alle giovani e ai giovani strumenti di comprensione, di conoscenza e consapevolezza, affinché non siano prede di manipolazione, né passivi fruitori di un mondo che non capiscono, né tantomeno si trovino spauriti e spaventati di fronte ai cambiamenti.

Questo vuol dire educare ragazze e ragazzi aperti e curiosi, che vedono nella diversità fonte di arricchimento. Rispettosi dei diritti di ogni donna e di ogni uomo, fermi oppositori di qualsiasi forma di discriminazione o di emarginazione. Protagonisti del proprio presente e caparbi costruttori di un futuro in linea con le proprie ambizioni e con i propri sogni. Cittadine e cittadini di società che vivono, concretamente, i valori di cui è intrisa la nostra Carta Costituzionale.

L’Università, allora, deve servire innanzitutto alla formazione culturale, scientifica, alla crescita della conoscenza e dei saperi, oltre che del senso di responsabilità e, solo dopo, all’utile. E l’utile è costituito dalle necessità di sviluppo economico e sociale dell’Italia nel contesto e di fronte alle sfide della competizione globale, per la quale dobbiamo irrobustire il nostro sistema d’imprese, puntando su conoscenze e competenze, a partire da quelle derivanti dall’intelligenza artificiale. Ma, ribadisco, l’Università non deve solamente servire a questo secondo scopo; con la formazione e con la ricerca deve anche e soprattutto perseguire il primo: coltivare, in senso generale, gli studi che educano le coscienze, che costruiscono cultura, conoscenze, desiderio costante di studio.  È qui che la domanda finale di Ornaghi trova, per quanto mi riguarda, fondamento e urgenza di risposta. Un sistema di formazione che assolve a questo tipo di compito è un sistema che guarda al pieno sviluppo di studentesse e studenti. Che davvero prepara al futuro. Un futuro da cittadine e cittadini.

Negli ultimi anni si è imposto nell’opinione pubblica un dibattito relativo alle discipline e ai saperi da trasmettere alle nuove generazioni. Un dibattito che ha visto contrapporsi il “partito” degli studi umanistici, ritenuti, appunto, meno utili dal punto di vista occupazionale, contro quello delle discipline tecnico-scientifiche, considerate più spendibili nel mondo professionale, contemporaneo e futuro. Un dibattito che rischia di trattare la questione in termini riduttivi. Perché non tiene conto dell’unità dei saperi. Un’unità che non prevede e non contempla alcun tipo di contrapposizione.

Non c’è un sapere che è superiore all’altro, in un determinato contesto storico. C’è un’unità di saperi che va trasmessa alle nostre giovani e ai nostri giovani. Che devono comprendere che guardare alla propria formazione in termini meramente utilitaristici è sbagliato. Non si frequenta una scuola, o un’università solo per mettere nella cassetta degli attrezzi strumenti da adoperare esclusivamente per trovare lavoro. Si frequenta una scuola, o un’università per acquisire competenze e conoscenze che edifichino la propria persona. E per fare questo, tanto la cultura umanistica, quanto quella tecnologica, digitale e scientifica sono imprescindibili.

In un Paese come il nostro, con il nostro patrimonio culturale, con la nostra tradizione storica, pensare di bandire la cultura umanistica perché non “produttiva” è quanto di più miope possiamo fare. Tanti sarebbero i temi da declinare per corrispondere alle sollecitazioni della riflessione di Ornaghi: l’internalizzazione, il finanziamento e il capitale umano, il reclutamento, la didattica, la valutazione, il diritto allo studio, la parità di genere. Rappresentano, infatti, temi fondamentali per armonizzare il nostro sistema universitario e della ricerca scientifica con le migliori buone pratiche europee. Temi che, in parte, già affrontammo in una Conferenza nazionale del Miur del novembre 2017.

Può l’università da sola dare risposte a tutti questi problemi? La risposta è no. Si tratta di una sfida che va affrontata con un nuovo approccio e probabilmente con uno sforzo importante lungo la filiera scuola – università – ricerca – mercato del lavoro e dove anche gli attori istituzionali centrali devono pensare a nuove politiche e strategie. Ecco allora, la necessità del cambio di prospettiva che ci deriva, anche, dal confronto europeo, dalla indispensabile costruzione piena dell’Europa.

Nelle società complesse e del cambiamento l’investimento sulla filiera del sapere è un fattore competitivo decisivo, che deve essere al centro delle scelte politiche e di governo e con esse strettamente connesso e integrato. E questo perché non parliamo solo del futuro di chi lavora, o frequenta l’Università, ma del futuro di tutto il Paese.

Ragionare di università italiana tra passato e presente, sulla base della tradizione e delle esperienze degli Atenei, di quanto definito dalla Carta Costituzionale e del contesto internazionale, significa guardare alla storia e alle prospettive, appunto, del nostro Paese.

Viviamo in un periodo storico che si caratterizza per la velocità dei cambiamenti in corso determinati da dinamiche globali, tecnologiche, d’innovazione dei modelli di produzione, di formazione, di condivisione. Internet, digitale, robotica, intelligenza artificiale: il nostro mondo è cambiato ed è in continuo cambiamento. E tutto avviene sotto i nostri occhi. Un cambiamento che procede con una continua riformulazione del paesaggio tecnologico-industriale-economico-sociale-culturale e con ripetute e inedite accelerazioni, pensiamo alla pandemia, alla guerra in Ucraina, alla guerra in Medio Oriente.

In questo fase storica l’università e l’insieme del sistema della formazione terziaria e della ricerca devono, perciò necessariamente, essere al centro del dibattito culturale e politico dell’intero Paese, proprio perché l’università si trova da tempo davanti ad un bivio impervio: se rimane ancorata a vecchi modelli, o peggio ancora, se li conserva solo per inerzia corre il rischio di mancare la contemporaneità e i suoi costanti cambiamenti; se sceglie, invece, di seguire la modernizzazione della società – cosa per me assolutamente necessaria – deve, però, mantenere anche quel distacco per non perdere il suo ruolo di coscienza critica che deve continuare ad esercitare e che costituisce, da sempre, il suo valore culturale fondamentale per ogni sociale civile e democratica.

Ecco perché, di fronte a questo serio e complesso bivio è importante discutere, confrontarsi e, poi, decidere che prospettiva scegliere. Questa scelta riguarda davvero tutto il Paese e il nostro futuro.

Fonte: Valeria Fedeli  | Lisander.com

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