In giorni come questi, costellati di notizie molto tristi, quella del Nobel per l’economia assegnato a Claudia Goldin è una bellissima eccezione. E non soltanto perché è il terzo – sui 55 Nobel per l’Economia, una disciplina notoriamente maschilista, ma non certo l’unica – assegnato a una donna, ma anche perché il premio le è stato attribuito proprio per i suoi studi sulle donne, sui loro svantaggi rispetto agli uomini per quanto riguarda occupazione, retribuzioni, avanzamenti di carriera, raggiungimento di posizioni di vertice.
Goldin, americana dell’Università di Harvard, è in effetti una pioniera dell’”economia di genere”, che ancora oggi suscita spesso smorfie di scetticismo e battute sarcastiche sul fatto che anche le giurie dei premi più prestigiosi, come appunto il Nobel, si inchinerebbero alle “mode culturali”, come da molti è ancora ritenuta la parità di genere.
Niente di più sbagliato: l’economia di genere non è una moda ma un aspetto-chiave delle società libere, emerso negli ultimi decenni. Claudia Goldin l’affronta scrupolosamente con le migliori metodologie di ricerca, grande ricchezza di dati, poca ideologia. Critica le politiche economiche sulla base di verifiche empiriche della loro efficacia e mette in evidenza i danni non solo economici che la discriminazione delle donne arreca alla società, in termini di riduzione generale del benessere.
La motivazione del premio riconosce a chiare lettere che Goldin ha “fatto scuola”, sostanzialmente aprendo nuovi campi di ricerca con un approccio che unisce la storia economica con l’analisi del mercato del lavoro, e diventando fonte di ispirazione per molti studiosi e studiose. Con il suo impegno di studiosa e ricercatrice, Claudia Goldin ha spostato – o comunque allargato – il tema della parità di genere dal terreno delle mere rivendicazioni femministe (peraltro importantissime) a quello della ricerca scientifica. L’adozione di un “campo lungo” – due secoli di storia americana – le ha permesso di decumentare e “spiegare” il divario retributivo sulla base delle differenze di istruzione, occupazione e carriera, tre “variabili” strettamente interconnesse; ma anche di compiere “sperimentazioni” per individuare i metodi educativi più efficaci nella riduzione dei divari educativi e culturali alla base dei divari di reddito. Un suo progetto (UWE, Undergratuate Women in Economics) ha l’obiettivo di ridurre il pregiudizio negativo delle ragazze nei confronti degli studi economici mediante svariati e innovativi metodi pedagogici.
Secondo Goldin, il capitalismo americano ha, più di altri, basato il proprio successo sull’istruzione, ma l’ha fatto, forse più di altri, con un’impostazione culturale che metteva la donna in secondo piano nel sistema economico, per assegnarle soprattutto lavori di cura all’interno della famiglia, considerati di minor valore e perciò poco o punto remunerati, determinando di fatto un assoggettamento economico della donna al padre, al marito, al compagno, sempre un po’ “padroni”. Al contrario, i posti di lavoro tipicamente maschili sono “avidi” (greedy) di tempo, di dedizione, di concentrazione fisica e mentale; tutte caratteristiche poco conciliabili con l’attività di cura e quindi – in una architettura socioeconomica che attribuisce differenti ruoli sociali in base al genere – inevitabilmente destinati agli uomini, che possono partecipare a riunioni a tutte le ore, fare straordinari senza preoccuparsi di dover andare a prendere i bambini a scuola o di partecipare agli incontri con gli insegnanti; o, ancora, assentarsi da casa anche per vari giorni per “missioni di lavoro” in luoghi più o meno distanti. Questa ineguale distribuzione delle attività di cura all’interno della famiglia continua anche in società avanzate, in cui la discriminazione di genere è illegale e penalmente perseguita, determinando il persistere della diseguaglianza tra uomini e donne nel mondo del lavoro.
E qui il discorso si intreccia, per l’appunto, con quello dei modelli educativi. Se infatti la società ritiene, come un tempo ampiamente riteneva, che gli studi più tecnico-scientifici siano “poco consoni” alle ragazze, pregiudizi e condizionamenti anche famigliari contribuiranno fortemente alla loro bassa presenza in quei percorsi educativi e quindi nei relativi posti di lavoro. E poiché la retribuzione è in generale positivamente correlata con l’istruzione, il salario medio femminile sarà conseguentemente più basso. Ed è questa perdurante tradizione “culturale” che continua ad assegnare alle donne i lavori più flessibili (spesso più precari), a orario ridotto, meno pagati.
Per conseguenza, sostiene Claudia Goldin, è su molti fronti che occorre agire per sconfiggere la diseguaglianza di genere. Se le norme che proibiscono la discriminazione sono ormai patrimonio comune delle democrazie occidentali (ma molti Paesi sono ancora lontanissimi dall’ideale di uguaglianza e anzi predicano e praticano “sfacciatamente” la diseguaglianza); se le imprese sono sempre più soggette, nelle valutazioni degli investitori, al rispetto della parità nelle scelte di governance, manageriali, di personale e di welfare (secondo obiettivi oggi imprescindibili per la sostenibilità delle imprese), possiamo dire di avere fatto passi avanti. Tutto questo però non basta. Occorre cambiare modo di pensare. A questo cambiamento Claudia Goldin ha dato un grande contributo, suggerendo spiegazioni, politiche e modelli educativi. Il Nobel che le è stato attribuito darà una spinta importante verso il traguardo, ancora troppo poco condiviso, di una vera uguaglianza.
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