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ULTIMO BANCO: Fame di destino

Qualche giorno fa lo scrittore e amico Daniele Mencarelli è venuto a dialogare con gli studenti della mia scuola. Daniele appartiene agli autori che non scrivono della «realtà» ma del «reale». La realtà è l’insieme delle abitudini che rendono tutto sempre uguale e sicuro, il reale è invece ciò che si manifesta quando un evento apre una finestra nel ripetersi di giorni e opere, imponendo un risveglio: malattia, innamoramento, lutto, nascita… Quando Lucio Fontana tagliò una tela lo rese evidente: la superficie uniforme della realtà squarciata da una ferita ci mette faccia a faccia con il reale, rivelando che il fondamento delle nostre certezze è a volte uno sfondo di cartapesta. Per rimanere nella realtà si può anche dormire, tutto va avanti e si vive per sentito dire o per procura; per stare nel reale, invece, occorre essere prima svegli e poi coraggiosi. Gli scrittori che si occupano del reale non cercano premi, ma scrivono per gli uomini e per il loro destino. Li riconosci perché attorno alle loro parole si crea una comunità, non una massa o una bolla di consenso. I ragazzi, creature affamate di reale, hanno posto infatti tantissime domande a Daniele, «destati» dai suoi libri pongono domande di «destino» (esser desti è condizione per avere destino): è tutto qui o c’è dell’altro? Che cosa c’è fuori dalla gabbia della realtà? Dove trovo il coraggio di uscirne? Domande che potrebbero porre a noi maestri, ogni giorno, ma se non lo fanno c’è un motivo. Quale?

La trilogia scritta da Mencarelli: La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare, è il racconto autobiografico di un giovane che, deluso dalla realtà, precipita nelle dipendenze (alcol e droga) ma non smette di cercare salvezza e la trova grazie alla propria madre e ai bambini dell’ospedale Bambin Gesù di Roma dove lavorava temporaneamente come addetto alle pulizie. I ragazzi sentono nei libri di Mencarelli la stessa fame di destino che ha salvato lui, e si aggrappano a un testimone del «reale», che non ha rinunciato, nonostante le cadute, a se stesso. Proprio come dice il diciassettenne Daniele, in Sempre tornare, mentre lavora in un campo per guadagnarsi da vivere durante il mese di fuga in autostop da cui inizia la sua crisi: «La fame di destino mi perseguita da sempre. Ci penso sempre al destino…

L’uomo di fede lo chiama provvidenza, gli attribuisce una volontà precisa, un dispiegamento di fatti che obbedisce a un disegno. Uno per ognuno di noi. L’uomo che non crede a niente lo chiama caso, un caotico avvenire dove a regnare è il nulla, dove vita e morte, vittoria o sconfitta, sono un po’ come gli spicchi della Ruota della fortuna. L’uomo che vive a metà strada fra i primi due lo chiama fato, non ha sufficiente fede per abbandonarsi alla religione, né altrettanto nichilismo per lasciarsi andare al caos. Per quel che mi riguarda, oscillo. Per sperare veramente ci vuole in certi momenti una forza disumana. Lo stesso dicasi per disperare. Di un dato, però, sono abbastanza certo. Per la parte di destino che dipende da me, faccio e farò sempre di tutto per conoscermi al meglio. Ogni giorno di più. A partire dal talento che mi vive dentro e che ho il dovere di scoprire. Fin da ragazzino, piccolissimo, una sicurezza è venuta spesso a visitarmi: «Io so fare qualcosa». Il problema è scoprire qual è la cosa.

Nessuno mi toglie dalla testa che ognuno di noi nasca con una dote precisa, con una bravura nascosta che chiede di essere scoperta. A me piace molto scrivere, lo sento stranamente importante, non posso non sperare, quindi, di aver trovato quello che so fare veramente. Potrei fare il poeta di notte e il contadino-fattore di giorno. Comunque, ognuno nasce per qualcosa. È questa, in fondo, la mia definizione di destino».

I ragazzi oggi sono consunti dalla «fame di destino», e sono le agenzie educative a poter rispondere a questa fame. A scuola, per esempio, non è ingozzandolo di nozioni slegate tra loro e dalla sua originalità che un ragazzo trova il gusto del reale, come canta bene il rapper Ernia in Tutti hanno paura: «A scuola mi chiedevo perché essere bravo/ Se la diagnosi era quella di un destino precario/ Mi hanno fatto leggere Goethe, Kant e autori simili/ Ma a me la vita poi è sembrata più i piccoli brividi». La scuola si sta riempiendo di retoriche di destino (soft skills, educazione civica, sessuale, stradale…), che, per quanto utili, sono spesso caratterizzate da imposizione di comportamenti più che scoperta di talenti.

Per riformarla bisogna darle la forma che le spetta, cioè mettere un ragazzo in condizione di avere destino: scoprire per che cosa è nato. Per riuscirci o la scuola diventa dinamica e comincia a ruotare attorno a ciò che ogni ragazzo è venuto a portare al mondo (il suo talento) o continuerà a essere una catena di parcheggio/montaggio anziché una fucina di vocazioni. Ogni studente ha diritto di uscire dalla scuola dell’obbligo sapendo leggere, scrivere e far di conto, cioè stare di fronte alla realtà senza farsi manipolare, ma potendo dire anche: «Io sono nato per questo».
Poi sarà affar suo mettersi in gioco o tradirsi, ma a quel punto non avrà l’alibi dell’ignoranza di sé e del mondo. Certo è che il Daniele diciassettenne che intuiva di essere nato per scrivere, se ha da poco pubblicato un nuovo romanzo (Fame d’aria), è perché, nonostante abbia provato a tradirsi, è riuscito, grazie all’aiuto di altri e della scrittura, a rimanere fedele al suo destino, e così si è salvato. Non è un caso che in quest’ultimo libro la salvezza di un padre (gli adulti) sia affidata a un figlio (le nuove generazioni) malato: non una retorica del nuovo che salva semplicemente perché è nuovo, ma il grido del «reale» che buca la «realtà», e ci risveglia e chiama a una vita nuova. Sapremo ascoltare?

Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it

 

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