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Il lazzaretto dei Promessi Sposi? In parte esiste ancora, nel centro di Milano

Per la precisione, sono due le parti che esistono ancor oggi. La prima è la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, ovverosia quella che un tempo era la cappella dell’ospedale; la seconda è il convento greco-ortodosso dei Santi Nicola e Ambrogio al Lazzaretto, che sorge all’interno di una struttura che un tempo ospitava le stanzette dei malati.

Se vi capitasse di passare da Milano, cercate di organizzarvi in maniera tale da poter fare un salto in zona Porta Venezia: e, in particolar modo, in largo Bellintani. Lì troverete, seminascosta nel mezzo di tanti palazzi moderni, una piccola chiesetta a base ottagonale. I Milanesi la chiamano “San Carlo al Lazzaretto”, e lo fanno per buone ragioni: quella chiesetta è (quasi) tutto ciò che rimane del famoso lazzaretto di Milano, reso celebre da I Promessi Sposi.

Il lazzaretto: luogo di cura, prima ancora che d’isolamento

Dopo la tragica esperienza dell’epidemia di peste nera del 1348, i nostri antenati ebbero l’intelligenza di imparare la lezione, imponendo un netto cambio di rotta alle politiche sanitarie fino a quel momento in uso. Fino alla metà del XIV secolo, le malattie a carattere epidemico venivano gestite “a domicilio”: ovverosia, i pazienti ricevevano l’ordine di non uscire di casa, attendendo fiduciosamente che qualche anima pia bussasse alla loro porta per consegnare acqua, cibo e medicine.

Il problema era che, talvolta, nessuno bussava. Non esisteva, all’epoca, un welfare statale che si facesse carico di portare scorte di acqua e cibo ai pazienti che erano impossibilitati a lasciare la loro abitazione. Informalmente, erano spesso le parrocchie a farsi carico di questo ruolo assistenziale, ma poteva capitare che qualcosa si inceppasse nel meccanismo (o che, semplicemente, il parroco non fosse a conoscenza di tutti i fedeli che avevano bisogno di aiuto). Insomma, non era infrequente che i malati finissero con l’essere abbandonati a se stessi: c’era chi moriva d’inedia, consumato dalla fame prima ancora che dalla malattia, e c’era chi per disperazione violava la quarantena, finendo inevitabilmente col propagare il contagio.

Chiaramente, occorreva trovare un modo per risolvere il problema. Milano fu la prima città italiana a intuire la possibile soluzione: erigere un gigantesco ospedale, esclusivamente dedicato ai malati contagiosi, nel quale i pazienti potessero essere isolati dagli individui sani ma in un contesto che permettesse loro di ricevere tutta l’assistenza del caso.

1486: nasce il Lazzaretto di Milano

Fu un’intuizione brillante e purtroppo preziosa, tenuto conto del fatto che la peste nera continuò a flagellare l’Europa per circa quattrocento anni, colpendola con ondate di varia potenza. Verso la fine del XV secolo, Milano avviò i lavori di costruzione per un nuovo edificio ospedaliero appositamente creato con la funzione di accogliere gli appestati (e di farlo nel modo più confortevole possibile). Fu scelto un appezzamento di terreno in prossimità della chiesa di San Gregorio, dove già esisteva un piccolo ricovero per infermi affetti da malattie non contagiose; i lavori furono affidati a Lazzaro Palazzi (nomen omen!), un architetto che si era fatto le ossa nella fabbrica del duomo iniziando la gavetta come semplice scalpellino e finendo col guadagnarsi la qualifica di mastro ingegnere.

Il lazzaretto aveva l’aspetto di una vera e propria fortezza, con tanto di ponte levatoio che si apriva su un fossato alimentando dalla Martesana, che provvedeva al tempo stesso a isolare la struttura e a garantire ai suoi abitanti un afflusso costante d’acqua potabile. Era una struttura gigantesca, con un’estensione di circa 160 metri quadrati, che abbracciava tutto il quadrilatero oggi compreso tra corso Buenos Aires, via San Gregorio, via Lazzaretto e viale Vittorio Veneto. All’interno della struttura, trovavano spazio 280 camere singole (!), ognuna delle quali era provvista di un letto, un camino, una latrina, un quadretto devozionale e un doppio punto luce: una finestra si affacciava verso il fossato, per permettere al malato di comunicare con l’esterno, e un’altra si apriva verso il cortile (nel quale, nei momenti di emergenza. venivano allestite tende e baracche per ospitare il crescente numero di malati).

Ma era uno e uno solo il punto verso cui tendevano gli sguardi di tutti i pazienti che s’affacciavano alla finestra lato cortile. Era quella che oggi è conosciuta come la Chiesa di San Carlo al Lazzaretto: edificata nel centro esatto dell’edificio, in modo tale che chiunque, sollevando lo sguardo dal suo giaciglio, avesse modo di scorgerla di lontano e di abbeverarsi alla vista salvifica del Santissimo Sacramento.

Il-Lazzaretto-di-Milano-nel-1630

Non a caso: la cappella non aveva pareti. Nel progetto originario, era una semplice struttura in legno volutamente aperta su tutti i lati, proprio perché l’architetto aveva voluto che il Tabernacolo potesse essere visibile da ogni punto dell’ospedale.

Va da sé: l’idea era buona (segno di un’attenzione per il benessere psicofisico del malato che avrebbe molto da insegnare anche ai giorni nostri); certo è che una struttura in legno, aperta da tutti i lati e costantemente esposta alle intemperie, finisce col deteriorarsi piuttosto rapidamente. Alla fine del Cinquecento, dopo circa un secolo di onorata attività, la cappella del lazzaretto aveva drammaticamente bisogno di un restauro: e nel 1580 fu san Carlo Borromeo a dare ordine di demolirla, per costruire una struttura nuova, più solida e più adatta a resistere al passar del tempo.

Nacque così la piccola chiesa a pianta ottagonale che esiste ancor oggi a Milano, in quello che un tempo era il centro esatto del lazzaretto. Così la descrive Alessandro Manzoni, nel capitolo 36 dei Promessi Sposi:

La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo. Ora, convertito l’edifizio a tutt’altr’uso, i vani delle facciate son murati; ma l’antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l’antico stato, e l’antica destinazione di quello.

Il lazzaretto di Milano rimase in funzione fino alla grande peste del 1630; fortunatamente, da quel momento in poi le ondate di contagio cominciarono a rarefarsi in tutta Europa fino a sparire completamente, rendendo obsoleta quella costruzione.

Disinfettato da cima a fondo con doppia mano di calce (chiesa inclusa!), il lazzaretto fu trasformato in caserma (ecco il «tutt’altr’uso» a cui allude Manzoni); durante la dominazione napoleonica, la cappellina – ormai sconsacrata – fu addirittura trasformata in un laico «altare della patria», con tanto di una «statua della libertà» collocata là dove un tempo s’era trovato l’altare.

Cosa resta, oggi, del lazzaretto dei Promessi Sposi?

Ma il lazzaretto non sarebbe sopravvissuto a lungo. A segnare la sua fine fu la diffusione della locomotiva: alla metà dell’Ottocento fu approvato un progetto che autorizzava la demolizione dell’edificio per permettere il passaggio dei binari che conducevano alla nascente stazione ferroviaria di Milano. Si levarono molte proteste da chi avrebbe voluto tutelare il bene architettonico, ormai divenuto celebre in tutta Italia grazie al successo dei Promessi Sposi, ma non ci fu niente da fare: la struttura fu lottizzata, parzialmente demolita e parzialmente messa in vendita a privati.

Oggigiorno, del lazzaretto di Milano sopravvivono solo due elementi. Il primo è, giustappunto, la cappellina centrale, che a fine Ottocento fu restaurata, riportata all’antico splendore e chiusa con l’aggiunta di mura esterne. Fu riconsacrata nel 1884 e, nell’occasione, dedicata a san Carlo Borromeo, colui il quale l’aveva fatta costruire: oggigiorno, la piccola chiesa è aperta al pubblico dalle 9 alle 12, con celebrazioni eucaristiche che si tengono due giorni a settimana, il mercoledì e il venerdì, alle ore 10.

Ma del lazzaretto di Milano sopravvive anche un piccolo tratto in via San Gregorio: comprende cinque stanze, rimaste perfettamente invariate all’esterno (e addirittura accompagnate da quel fossato, ormai secco, nel quale un tempo scorreva l’acqua). Dal 1970, quei locali ospitano un convento greco-ortodosso dedicato ai santi Nicola e Ambrogio al Lazzaretto: i monaci che vi vivono sono gioviali e molto pazienti nell’aprire le loro porte, col sorriso sulle labbra, ad amici, visitatori… e semplici curiosi.

Fonte: Lucia Graziano | Aleteia.org

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