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Sindrome di Crono: natura, cause e conseguenze

La “Sindrome di Crono” è una patologia che si può sviluppare in ambito lavorativo, affettivo, sociale e familiare

La “Sindrome di Crono” consiste nella paura, tipica del mondo attuale e frenetico, di essere sostituiti, in ambito lavorativo, sociale e affettivo, sino a perdere ciò che è stato ottenuto con fatica. La sindrome riceve il nome dal titano Crono che, nella mitologia greca, usurpò il posto del padre Urano. A Crono, tuttavia, fu predetto che il grave atto si sarebbe ripetuto nei suoi confronti e, quindi, dopo aver sposato la sorella Rea, iniziò a divorare i figli pur di non essere spodestato da uno di loro. La fine ingloriosa è quella di vivere insicuri e ansiosi perché i propri beni e le proprie posizioni si considerano sempre precari, in pericolo. Sull’esempio del titano Crono, chi detronizza, capisce che può esser detronizzato a sua volta. È fisiologico, per l’essere umano, provare frustrazione nel non essere considerati idonei e, di conseguenza, essere escluso; il problema nasce nel momento in cui tale fobia diviene continua e ossessiva, stressante e limitante. La paura di fallire diventa più forte della gioia di dare. La patologia si può sviluppare in ambito lavorativo, affettivo, sociale e familiare. In ambito professionale, costringe il lavoratore a un’ansia continua che lo porta ad arroccarsi sulle proprie posizioni, a non collaborare, cercando di primeggiare senza tanti scrupoli.

Spesso si è erroneamente indotti a pensare che tale fobia riguardi solo chi abbia posizione di responsabilità e di vertice; la realtà, invece, è che investe tutti, anche le persone “comuni”, timorose di perdere la posizione ottenuta, la stima ricevuta (le necessità di stima e autorealizzazione sono al vertice della nota scala dei bisogni di Maslow). Chi ha potere vive nella paura di perderlo. Essere al vertice, tuttavia, significa anche saper gestire situazioni difficili, senza far precipitare nel panico, o nell’immobilismo, tutto il team che si dirige. In amore e nell’amicizia, la volubilità, la transitorietà dei valori e degli effetti, tutti posti a tempo determinato, conducono a un circolo vizioso e, soprattutto, reciproco. Chi la fa, l’aspetti: la ruota gira di continuo in questo far west dell’affetto. La temporaneità e la diffusa revocabilità dei sentimenti, prodotta dalla società della relatività e del carpe diem, alimentano la paura e i casi effettivi di sostituzione.

Rapporti sentimentali “alterati”, basati sulla gelosia esasperata e sulla possessività, investono e sono investite dal clima di paura di perdere l’altro. Una relazione sana, bilanciata, sincera, fondata sul dialogo e simmetrica, senza la prevalenza di uno dei due, non si presta a esclusioni e abbandoni. Il disporsi al prossimo, quando non è frutto di immagine e di esteriorità ma, al contrario, fondato sull’essenza e la sostanza, non teme di essere sostituito o dimenticato. Tale preoccupazione subentra solo quando una relazione è fondata sull’effimero, sull’avere. La bassa autostima è responsabile anche di situazioni spiacevoli in famiglia, in cui possono delinearsi delle incomprensioni e una difficile gestione di rapporti e ruoli, tra gelosie e invidie.

L’esortazione di San Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna”.

L’ingannevole paura di non essere all’altezza” è il titolo del volume realizzato dalla dottoressa Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta, pubblicato da “Ponte alle Grazie” nel settembre 2020. L’autrice ricorda come i parametri di perfezione e infallibilità, imposti dal mondo contemporaneo, tengano in apprensione l’individuo, stretto nell’ansia di non farcela e di fallire. Alla sicurezza esteriore si contrappone l’insicurezza interiore che deve essere battuta attraverso un’opera di costruzione dell’autostima.

A proposito di paure, lo scorso 2 dicembre, nel presentare l’annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese, visibile al link https://www.censis.it/rapporto-annuale/l%E2%80%99italia-post-populista-e-malinconica, il Censis rileva “La quasi totalità degli italiani (il 92,7%) è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, il 76,4% ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari, il 69,3% teme che il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi), il 64,4% sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione. Cresce perciò la ripulsa verso privilegi oggi ritenuti odiosi, con effetti sideralmente divisivi: per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti, per l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer. […] Il 61,1% teme che possa scoppiare un conflitto mondiale, il 58,8% che si ricorra all’arma nucleare, il 57,7% che l’Italia entri in guerra. […] Oggi il 66,5% degli italiani (10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid) si sente insicuro. I principali rischi globali percepiti sono: per il 46,2% la guerra, per il 45,0% la crisi economica, per il 37,7% virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% l’instabilità dei mercati internazionali (dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia), per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici (temperature torride e precipitazioni intense), per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala”.

La competitività regna e, in una società dove troppo spesso è posta come scopo della vita, coinvolge l’adepto in ogni momento. La vita del “competitore” è dura, monotematica, egoista e con possibilità di ricadute. Come un boomerang, la feroce rivalità innescata e la lotta senza quartiere, possono rivalersi nei confronti di tutti, anche di chi si sente, al momento, sul carro del vincitore. La rivalità è divisiva e diminuisce il potere del gruppo, della cerchia sociale, in qualsiasi tipo di rivendicazione. Il singolo può, prepotentemente, salire le gerarchie del potere ma lascia, sul campo di battaglia, diritti violati e persone sole, in una società più dura e difficile che, a macchia d’olio, nel giro di qualche tempo, lo avvinghia e lo risucchia comunque, sostituendolo con un altro predatore. La competitività esasperata non genera diritti, li affossa, per tutti.

Nell’irrealtà dei social e della vita contemporanea, l’obbligo di vincere, di ottenere consenso, fama e soldi è ancora più assillante che nel passato. Ne restano coinvolti giovani e adulti, questi ultimi genitori dei primi. La spersonalizzazione della società (e del mondo lavorativo), spinge le persone a reagire in modo esasperato pur di affermarsi, sgomitando se necessario. La società ultraselettiva non ammette fallimenti e se l’unità in carne e ossa non soddisfa parametri e algoritmi, la detronizza e ne insedia immediatamente un’altra, a sua volta in stretta competizione per non essere cestinata.

Il corollario dell’esigenza di essere sempre il “migliore” senza essere scavalcato, porta l’individuo a studiare e a porre in atto comportamenti ostili e sabotativi nei confronti del prossimo (considerato solo come avversario). L’individualismo trascina alla competizione e viceversa; entrambi conducono all’ostilità. Il mondo iperveloce e insensibile, si nutre alternando i propri “polli da allevamento” che produce, seduce e illude. Fa sognare il benessere e la felicità, li rende visibili esteriormente, nel tempo di poter essere fotografati e immortalati nei social, poi scompare e lascia terra deserta, nell’anima e nel concreto. Nella cinica lotteria del “migliore”, ora si può esserlo, ora non più.

Un’epoca come quella attuale, fondata sul “cambiare”, sull’alternarsi frenetico di situazioni e condizioni, alimenta tale patologia e lo stress che ne consegue. La cura migliore è un approccio equilibrato, non arrivista e competitivo. Ciò che si conquista non è un privilegio inalienabile, la condivisione lo rende beneficio per tutti e ciò che si paventava come un rischio, la sostituzione, viene considerata, invece, come una collaborazione. La paura della sostituzione, rimanda a un timore ancestrale: quello di essere battuti, l’incapacità di accettare che, in un determinato campo, non si sia sempre il migliore. Nell’epoca del tuttologismo, aumenta anche il ventaglio di rischio per chi esterna “sapienza” ma, in realtà, cova paura.

Una sostituzione, durante una partita di calcio, non significa necessariamente una bocciatura o un fallimento. Il calciatore cambiato, infatti, può trovarsi in uno stato di affaticamento o di scarsa forma fisica e mentale senza che la sua bravura sia scalfita. Un individuo sereno, creativo, aperto alle sfide e alle novità, colto e pronto a sacrificarsi per ottenere un obiettivo è, sicuramente, meno esposto alla sindrome. Consapevole, senza protervia, dei propri mezzi, è pronto a ricominciare e ad attutire il colpo di eventuali fasi meno felici che, ciclicamente, possono avvenire, in alternanza con quelle più positive.

La vergogna è un limite posto ad asticelle spesso esagerate: nel caso in cui si dovesse pur verificare un “cambio”, non lo si deve vedere come una disfatta di cui imbarazzarsi bensì un evento possibile fra i tanti, a cui reagire con impegno e sacrificio. Accettare le proprie imperfezioni significa che l’individuo si riconosce come tale, umano e fallace, anziché una macchina da guerra con l’illusione di procedere perfetto e inattaccabile. L’unicità dell’individuo non si determina sul non essere superato, vinto o spodestato. Si è unici in base ai propri sani valori. Con l’alter si vive e si condivide, non si gareggia sempre e comunque. Gli obiettivi possono essere raggiunti senza la necessità di scavalcare il prossimo; i traguardi sono, in tal modo e per loro natura, raggiunti con metodi leali e genuini e sono quelli più duraturi, insostituibili. Occorre apprezzare l’unicità non l’individualità. La persona “unica”, quella che si rende speciale per gli altri, è insostituibile. Per l’ultimo, colui che tende una mano nel bisogno, non sarà mai sostituibile: sarà unico.

Fonte: Marco MANAGO’ | InTerris.it

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