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Perduta la fede in Cristo, l’ultima parola sulla vita ritorna alla morte

La proclamazione del valore del suicidio e dell’eutanasia come ”diritti” promossi dallo Stato getta un’ombra di disperazione su un’intera civiltà; la nostra, che pare voler eliminare il suo fondamento senza averne trovato un altro.

Sabato 14 maggio, organizzato da Alleanza cattolica, Nonni 2.0, Esserci e Sintesi politica, a Milano, presso l’Istituto di Maria Consolatrice, si è tenuto un convegno sulle proposte in corso per l’approvazione legislativa dell’eutanasia e del suicidio assistito. Il titolo era “Il suicidio assistito e il suicidio dell’Occidente”. L’iniziativa è stata presa nell’ambito di “Ditelo sui tetti”, il cartello di associazioni cattoliche – un centinaio con caratteristiche e numerosità varie – che si sono date un’agenda comune di impegno e azione a favore della concezione cristiana della vita e delle società. Sottolineo il significato positivo del “a favore”, anche se inevitabilmente in contrasto con chi questa concezione la vuole, se non abbattere, neutralizzare con regole diverse della convivenza civile. Io sono stato invitato per affrontare “la questione antropologica”, suppongo in quanto medico cattolico, non essendo antropologo, sociologo o filosofo.

Ho detto la mia che già ho scritto su queste pagine – nel marzo del 2017, mi pare – in occasione del suicidio assistito di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, cieco e tetraplegico a seguito di un incidente d’auto. La Corte costituzionale ha giustificato chi lo ha aiutato a morire, assimilando il caso a una forma di rifiuto dell’accanimento terapeutico e invitando il parlamento a legiferare in proposito. Adesso si vorrebbe per l’appunto fare approvare il diritto non solo di uccidersi ma di essere uccisi con l’egida del Servizio sanitario nazionale.

Una conquista triste

Contrariamente a quanto sommariamente si pensa e si afferma, non solo in ambiente cattolico, ma anche da parte di coloro che, pur essendo salutisti e pacifisti “totali” – vedi lotta contro il Covid e polemiche sulla guerra in Ucraina –, sostengono aborto ed eutanasia, la vita non è un valore assoluto. La vita può essere offerta, sacrificata, per Dio, per la patria, per i propri cari, per amore degli altri. Chi agisce così è riconosciuto come santo o eroe da tutti, a prescindere dalle differenze di giudizio sulle questioni sopra ricordate. La sensibilità umana profonda coglie che la vita c’è per essere donata; altrimenti si consuma e si perde nella malattia, nell’inutilità o nella violenza.

Se la vita non è un valore assoluto, è però un valore fondamentale, cioè è il fondamento di tutti i diritti che fanno crescere ed esistere la persona. Come detto nell’articolo su Tempi sopra citato, non condanno, cioè non mando all’inferno, chi per troppo dolore e disabilità rinuncia alla vita. Tuttavia c’è assai poca vittoria da celebrare e tanto meno diritto. Questo si esprimerebbe in un’autodeterminazione, padrona della propria vita, cui si dà una fine voluta e dignitosa. Va notato però che l’eliminazione della sofferenza è a prezzo dell’eliminazione di sé. È la resa di una creatura, che, non facendosi da sé, quando l’esistenza diventa insopportabile, non può cambiarla, ma solo togliersela. Rinunciare alla vita più che affermare un nuovo diritto è rinunciare a tutti. Rivendicare questo come conquista civile non aiuta, spegne. E noi ci stiamo ritrovando in una società sempre più spenta e sterile.

Padroni del proprio destino?

Inizio e fine vita sono inevitabilmente legati: se la vita è data può essere solo riconsegnata, con la coscienza del dono ricevuto. La gratitudine per la vita è il fattore principale di speranza e movimento verso un’umanità e un mondo più veri. Questo è l’unico paradossale senso di una morte accettata, «fiorita dalla vita», come dice il poeta Rilke. Infatti la vita può essere data solo a chi è in grado di accoglierla, di salvarla e redimerla dalla sua fragilità e finitezza. Dio è necessario! Nel romanzo Ilia ed Alberto, di Angelo Gatti, uscito nel 1923, si racconta la storia di una coppia borghese. Lei è religiosa, lui agnostico. Quando lei muore, lui si dispera e cercando una parola di consolazione va dal prete che era direttore spirituale di lei. Il prete gli dice pressappoco: «Vede, se Dio non c’è, tutto è assurdo, se c’è, tutto è mistero; io preferisco la seconda ipotesi». Il mistero è ciò che si vede, si sente, ma non si possiede, perché è per un senso e un fine più grande di noi: la vita e la morte per l’appunto.

Come suggerisce il titolo del convegno da cui siamo partiti, la proclamazione del valore del suicidio come diritto promosso dallo Stato getta un’ombra di disperazione su un’intera civiltà; la nostra, che sembra voler cancellare il suo fondamento senza averne trovato un altro, altrettanto forte e significativo. Dopo il mio intervento, gli altri relatori si sono diffusi sulle incongruità e contraddizioni della nuova proposta di legge, che tuttavia viene ostinatamente portata avanti cercando una non impossibile maggioranza parlamentare. E avviene lo stesso per le altre proposte che vogliono introdurre nel nostro paese, come è già in altri dell’Unione Europea, i cosiddetti nuovi diritti, oltre all’eutanasia e il suicidio assistito, il cosiddetto gender con l’abolizione della differenza sessuale, la gravidanza surrogata, gli screening genetici e così via. Lo scopo è dimostrare con la legge, spogliata della sua base naturale e ridotta al consenso attivo o passivo dei più, la padronanza dell’uomo, donna o altro, sul proprio destino. Sembra questo un processo inarrestabile.

Ascoltando mi è venuta in mente un’osservazione, che mi è stato concesso di fare, durante una sospensione dovuta a problemi tecnici di un intervento a distanza. La riporto qui perché mi sembra utile a comprendere la posta in gioco e l’urgenza dell’impegno cui come cristiani siamo chiamati.

Una situazione molto vecchia

I progressi della medicina, soprattutto nell’ultimo secolo, sono stati enormi e hanno condotto a risultati prima impensabili nella prevenzione e cura delle malattie. È grazie a tali progressi che, per esempio, una pandemia mondiale come il Covid è stata arginata nel giro di due anni, oppure che pazienti con gravi disfunzioni polmonari, cardiache o renali possono essere trapiantati o aiutati artificialmente così che i loro nuovi e vecchi organi riprendano a funzionare adeguatamente. L’evoluzione dell’organizzazione sanitaria ha contribuito a sviluppare e proteggere migliori condizioni di vita, così che la sua durata media è molto aumentata negli ultimi settantacinque anni, da 50 a 70 anni e rotti nel mondo e oltre gli 80 anni nei paesi più sviluppati. Tuttavia, non tutto oro è quello che luccica. Proprio a causa dei suoi progressi, la medicina, per così dire, “produce” anche molta invalidità. Mantiene in vita con grave disabilità e per anni persone più o meno giovani che in passato sarebbero morte, o persone sempre più anziane con importanti deficit fisici e mentali. L’assistenza di tali pazienti è molto onerosa, sia dal punto di vista delle risorse economiche che delle risorse umane, in particolare psicologiche, di fronte a casi che non miglioreranno mai. Si accentua conseguentemente la tendenza a “staccare la spina”, riducendo i tempi di assistenza e a considerare indegne e irrimediabilmente infelici le condizioni caratterizzate da deficit cerebrali e demenza. Così succede che nei paesi del Centro e Nord Europa non si facciano più nascere bambini Down, che in Inghilterra i tribunali sentenzino la morte per bambini affetti da malattie genetiche gravi, che in Olanda e in Belgio la legge sull’eutanasia, vigente da anni, sia stata estesa anche ai minori. Parlo dei bambini perché l’eutanasia applicata a loro è emblematica della volontà di applicarla a tutti, anche indipendentemente dalla volontà del soggetto che la subisce.

La situazione descritta non è nuova, anzi è vecchia, molto. La medicina occidentale, come la conosciamo, nacque in Grecia nel V secolo avanti Cristo con Ippocrate che, privilegiando decisamente un approccio razionale, la liberò dalla ritualità magica e sacra che affrontava la malattia come maledizione degli dèi. Nei secoli successivi la medicina fece progressi costanti, per quanto lenti. Però mai realizzò ospedali e luoghi di cura, se non i “valetudinari” a Roma per i soldati, che erano la casta più importante e necessaria per il potere. I malati, che erano frequentemente infettivi e quindi contagiosi, erano anche pericolosi: non erano assistiti ma sfuggiti o allontanati, come ci dice il Vangelo per i lebbrosi, che vivevano insieme fuori dalle città.

Il senso della cura

Le cose cambiarono nei primi secoli dell’era cristiana, quando nei conventi e nelle sedi vescovili si cominciarono a realizzare gli ospedali, o più propriamente gli “ospitali”, che accoglievano non solo malati, ma anche poveri perché «la povertà è la madre di tutte le malattie» (ancora oggi). Gli ospedali furono fatti non perché si sapessero curare le malattie, ma per assistere per lo più moribondi, in condizioni di vita durissime per chi soffriva e per chi assisteva. Era avvenuto un grande cambiamento, si era diffusa nel popolo la fede cristiana. La promessa della resurrezione di Cristo aveva tolto alla morte l’ultima parola sulla vita. Si poteva sperare, amare e compatire, che sono gli atteggiamenti più necessari davanti al dolore e alla morte. «Infirmarum cura ante omnia», dice la regola di san Benedetto, che sapeva come l’unica salute e salvezza possibile provenisse dalla sequela di Cristo, che era risorto dopo aver condiviso il destino dell’uomo fino al patimento e la morte. Questa pietà ha sostenuto per secoli il lento cammino degli ospedali, senza i quali l’esplosivo progresso della medicina moderna non ci sarebbe. Nemmeno ci sarebbe il rispetto e l’attenzione alla persona, conquistati anch’essi nel tempo, in mezzo a grandi contraddizioni, ma conquistati.

Adesso la fede se ne sta andando, nel popolo e soprattutto tra gli intellettuali e gli scienziati. I primi e forse più importanti effetti sono sulla concezione della vita, considerata bene materiale come altri, che non sopportano difetti di produzione e usura e quindi possono essere smaltiti o riciclati. I convegni che richiamano i valori sono importanti e si debbono fare, ma ancora più importante è una presenza che affascini, mostrando come chi vive di fede non si sente mai abbandonato né abbandona.

Fonte: Giancarlo Cesana | RadioMaria.it

 

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