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“Non basta insegnare a guardare, occorre dire agli studenti cosa vedere”

Cosa rimane di un anno scolastico che si è concluso? Bellezza e domande. Anche su senso dell’insegnare, sul come non lasciar soli gli studenti.

L’anno scolastico si chiude con tante belle istantanee che restano lì, inchiodate nella memoria. Una lezione fatta all’aperto, senza le maledette mascherine, all’ombra di un pino mentre tutto intorno è un caldo canicolare. Le ultime due ore dell’anno passate a guardare insieme The Truman Show e poi a discutere, senza nemmeno accorgersi che la campanella è suonata. Il saluto dei tuoi ragazzi, che ti fa capire che qualcosa è accaduto, anche se tu non stai sempre lì a pretendere il feedback. Si potrebbe continuare. Magari con la grande festa di una scuola paritaria: tutti insieme, genitori, insegnanti, figli, in una sorta di sagra paesana che ti fa sentire dentro una grande famiglia… La scuola è finita, ma non “è finita!”, cioè non con un grido liberatorio come quello di chi evade da una prigione. E pensare di ricominciare tra qualche mese non è una nube minacciosa all’orizzonte.  

Però qualche istantanea è anche triste. Come quella degli occhi di un ragazzo in difficoltà e che quando parla con te guarda nel vuoto, perché sta girando a vuoto. I suoi occhi non vedono nulla. E ti viene in mente quella breve lirica di Pirandello, Gli occhiali: “Avevo un giorno un pajo/ d’occhiali verdi; il mondo/ vedevo verde e gajo,/e vivevo giocondo.// M’abbatto a un messer tale/ dall’aria astratta e trista./ — ‘Verdi? — mi dice./ Ti sciuperai la vista.// Sú, prendi invece i miei:/ vedrai le cose al vero!’ —/ Li presi. Gli credei./ E vidi tutto nero.// Ristucco in poco d’ora/ d’un mondo cosi fatto,/ buttai gli occhiali, e allora/ non vidi nulla affatto”.  

Gli occhi che guardano, ma non vedono nulla sono uno spettacolo davvero doloroso. Specie se quegli occhi tu li hai conosciuti quando vedevano verde. E adesso invece… Come Frodo, il piccolo hobbit di Tolkien, noi docenti abbiamo il privilegio tremendo di portare su di noi il male degli altri e ci dobbiamo per forza fare i conti. Siamo chiamati ad essere punti di riferimento, maestri e guide, oggi più che mai. Siamo esposti allo sguardo altrui, agli occhi affamati di senso e di speranza dei giovani che incontriamo. Riusciremo ad essere quello che dobbiamo essere? O, domanda ancor più cruda, riusciremo a non essere almeno la causa di quel male? 

Gira in questi giorni una frase che qualche mamma, in cerca di ispirazione per un regalo carino da fare ai professori, ha trovato sul web. È la frase di una certa Alexandra K. Trenfor, che poi è una perfetta sconosciuta, un personaggio virtuale di cui non si sa niente, nemmeno se esista davvero. Però la mamma di cui sopra non si è peritata di andare a verificare: la frase le sembrava bella e ha fatto copia-incolla. Dice così: “I migliori insegnanti sono quelli che vi mostreranno dove guardare, ma non vi diranno cosa vedere”. C’è del vero, perché l’insegnante “migliore” è quello che rappresenta per il giovane un invito a guardare. C’è della menzogna, perché il “cosa vedere” è importante, è fondamentale e deve essere mostrato e visto e riconosciuto. Altrimenti si rischia di diventare come il “messer tale” di Pirandello che rovina la vista agli altri.

Nell’inferno quotidiano, scriveva Calvino, è importante saper riconoscere chi e cosa non è inferno, e farlo durare e dargli spazio. Gli occhi di Dante avevano bisogno di incontrare qualcuno nel “gran deserto” della selva oscura, di vedere, affidarsi e seguire. Quindi avevano anche bisogno che qualcuno li guardasse. Il vero maestro non solo indica dove guardare e cosa guardare, ma è colui che sa guardare negli occhi il discepolo. Tutto il viaggio di Dante non è che un imparare a guardare seguendo le indicazioni di chi vede meglio di lui. Ma la frase di cui sopra carica il giovane di un peso schiacciante, pretendendo da lui uno spontaneismo e un’autonomia che diventa facilmente presunzione e si rovescia poi in disperazione. Il “maestro migliore” non lascia mai solo il discepolo che gli è stato affidato, non si ritira indietro quando c’è da indicare il cammino. Perché il vero problema non è il dove guardare, ma proprio il cosa vedere. E, aggiungerei, il come guardare.

La frasetta della fantomatica Trenfor, che suona bene e viene anche stampata sui gadget, è dunque menzognera, proprio come l’identità dell’autrice. Non risponde al bisogno autentico di quegli occhi di cui parlavo prima, quegli occhi che non vedono più nulla e che hanno bisogno di vedere qualcosa. Dimentichiamola, dunque, e passiamo ad altro.

Ad un lampionaio, per esempio. Quello del Piccolo Principe di Saint-Exupéry, quell’individuo modesto e un po’ patetico che intenerisce il cuore del protagonista della vicenda. Quello che resta fedele alla consegna che gli è stata data come compito, anche se ogni giorno si fa più faticosa, perché il mondo si è messo a girare troppo velocemente, è diventato come una trottola impazzita, una macina che trita tutto e tutti ad un ritmo vorticoso ed innaturale. A fronte di questa velocità da matti, c’è la consegna che è sempre la stessa. La consegna che è una responsabilità eccezionale: “Quando accende il suo lampione, è un po’ come se facesse nascere un’altra stella, o un fiore”. 

Accendere una stella o un fiore… è come accendere un essere umano che si è spento. È come sorridere a Dante dandogli la mano prima di fargli affrontare la fatica e il dolore del cammino; è come portarselo sulle spalle quando il sentiero è dirupato e non ce la fa più; come condurlo lungo la natural burella a “riveder le stelle”; come invitarlo, stimolando la sua libera adesione, a salire in Paradiso, dove potrà vedere finalmente Beatrice. Perché Virgilio, la guida di Dante, sa cosa deve vedere colui che gli è stato affidato e non lo lascia mai solo. Per più di sessanta canti in modo costante, pervicace, instancabile, sorregge quello che a un certo punto chiama “figlio”, finché, quando è giunto alla certezza che può procedere da solo, lo sollecita a comportarsi da uomo libero. C’è un “maestro migliore” di questo? 

Il mondo gira male e troppo velocemente. Lo sguardo si perde, gli occhi non vedono più nulla. Ma quando vedono, allora sì che è possibile rinascere, ritrovare voglia e speranza! E non parliamo qui solo degli occhi di chi ci è affidato: siamo noi stessi che abbiamo bisogno di vedere! Siamo noi ad avere bisogno di istantanee che rimangono inchiodate nella memoria. Virgilio si fa umilmente discepolo degli occhi belli e addolorati di Beatrice. Senza avere incontrato quello sguardo, la sua presenza sarebbe stata inefficace. In fondo inutile. Chi sostiene davvero è a sua volta sostenuto. Chi sa dare forza e speranza è perché, se ne renda conto o no, quei doni li ha ricevuti. Chi insegna a vedere è perché è stato guardato.

Fonte: Gianluca ZAPPA | IlSussidiario.net

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