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Rosario Livatino: un uomo che ha incarnato l’essere giudice

Che profilo deve avere “un giudice come Dio comanda”? Come sarebbe atteso da quegli uomini che hanno “fame e sete di giustizia”? Un tecnico raffinato? Un creatore della norma? La risposta, in modo più efficace di qualsiasi teorizzazione, la dà con la sua vita un uomo che, più che fare il giudice, ha incarnato l’essere giudice. La risposta si chiama Rosario Livatino.

Il 21 settembre 1990 egli aveva 38 anni, lavorava come magistrato ad Agrigento, dapprima nella Procura della Repubblica, poi nel Tribunale. Viveva a Canicattì, dove operavano numerose cosche di mafia, incluse quelle colpite dai suoi provvedimenti. Disponeva di mezzi limitati, non aveva tutela personale, applicava le poche scarne norme dell’epoca in tema di repressione della criminalità mafiosa: non vi era la legge sui “pentiti”, né un obbligatorio coordinamento delle indagini, e il contesto sociale era ostile e omertoso. Eppure ha onorato la toga in modo così esemplare da sacrificare per essa la vita.

Esattamente un anno fa è stato proclamato beato nella Cattedrale di Agrigento: è un dono grande quello che la Chiesa ha fatto alla comunità dei giuristi, in particolare ai magistrati, nel riconoscere la santità di uno di loro. È un dono, esito dell’accertamento approfondito svolto nella fase diocesana e in quella della Congregazione per le cause dei Santi, che segnala che perfino l’esercizio di una funzione così a stretto contatto col male può condurre, grazie alla fede e al sacrificio, a virtù eroiche ed esemplari; segnala che è possibile, e che non è fuori dal tempo.

Il riconoscimento del martirio di Livatino e la sua prossima beatificazione illuminano sul significato del lavoro del giudice: la figura di Rosario permette di vedere incarnata nella funzione l’evangelico “non giudicate per non essere giudicati”. L’area del “non giudicare” coincide con l’arbitraria, e non autorizzata, valutazione etica della vita di una persona, non già col raffronto fra gli specifici atti della sua condotta – indicati dall’accusa come illeciti – e le norme di legge. Quell’invito esorta pertanto alla professionalità, all’approfondimento del fatto concreto per il quale la persona è chiamata in giudizio, alla verifica della sua corrispondenza alla norma: è l’essenza del lavoro del magistrato, chiamato a mettere da parte visioni ideologiche, risentimenti personali, condizionamenti di carriera. È stato l’essenza del lavoro di Livatino.

Questo dono non può essere disperso riducendo la portata di quel che Livatino è stato, e di quello che può insegnare al magistrato che oggi che ogni giorno affronta vicende complesse e angoscianti, e che magari, come lui, prima di entrare nell’aula di giustizia, fa il segno della Croce. Il profilo di Livatino è antitetico a quello di un magistrato di ‘sistema’: in dodici anni di esercizio della funzione ha parlato solo attraverso i provvedimenti, non ha mai rilasciato una intervista, non si è fatto sfuggire indiscrezioni, non ha aderito a ‘correnti’, ha rispettato le garanzie difensive, si è sempre mostrato convinto che compito del giudice non sia creare la norma, bensì applicarla, secondo competenza e coscienza. E ha posto la sua coscienza S.T.D., sub tutela Domini: è il primo magistrato in epoca moderna a essere beatificato.

Fonte: Alfredo Mantovano | Interris.it

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