L’incalzare di scelte contro la vita segnala che ci sono padri e madri che non vogliono cedere il mondo ai figli e sognano l’eterna giovinezza. Rimuovendo il limite e il dolore

L’incalzante avanzare dei progetti di legge sul suicidio assistito, ma soprattutto la percezione di un sostanziale disinteresse dell’opinione pubblica sulla questione, non possono che suscitare sconcerto e persino una certa incredulità in chi crede fermamente nel valore primario della vita. La cultura della morte sembra ormai aver preso il sopravvento senza più scandalo: nella società occidentale nascono sempre meno bambini, l’aborto è vissuto come un diritto, e una parte rilevante del sistema mediatico sembra più favorevole a sostenere progetti di morte piuttosto che a lottare perché si sviluppino progetti di accompagnamento e cura per chi è ma-lato, fragile, sofferente. Ciò che più colpisce, però, è che a sostenere questa nuova battaglia non siano tanto le persone più anziane, che potremmo immaginare spaventate dall’avvicinarsi del termine della loro vita con l’eventuale possibile corteo di sofferenza; quelli che più appaiono schierati a favore della terribile libertà di morire sono soprattutto le persone più giovani, che della morte non possono avere ancora un vero sentore.

Certo, là dove una battaglia è intitolata a qualche libertà le persone più giovani si sentono naturalmente attratte; ma come non rabbrividire all’idea che i giovani lottino per il diritto alla morte e non piuttosto per il diritto alla cura e alla protezione dei più deboli? Perché scelgono la libertà di morire e non la libertà di vivere? Di fronte a questo trionfo di una cultura di morte mi è tornato alla mente un versetto del libro della Sapienza: «La morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo». Una frase misteriosa, che invita a riflettere: forse è davvero l’invidia il tema sotterraneo ma cruciale del nostro tempo, e ciò che è sotto l’attacco di una invidia inconsapevole ma feroce è tutto quello che va nella direzione della vita, del suo libero espandersi e del suo gioioso fiorire. L’invidia è un sentimento doloroso e segreto che porta ad attaccare le cose buone: citando Shakespeare, «(l’invidia) è un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre». Ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che dà vita, può provocare un invidioso dolore in chi ne è per qualunque motivo lontano; ciò che è generativo può provocare una dolorosa invidia in chi si sente escluso da questa sorgente vitale.


La generazione che voleva «la fantasia al potere»

ha desiderato il cambiamento, ma oggi fatica a farlo realizzare
da chi dovrebbe prenderne il posto
Investiamo sull’illusione di un corpo che non invecchia
E facciamo intendere ai giovani che bisogna evitare la sofferenza


Ma perché la nostra cultura invidia e attacca la vita? Rileggendo a partire dall’esperienza diretta la storia della mia generazione, posso provare ad avanzare alcune ipotesi. La nostra generazione aveva grandi sogni e grandi aspettative: i ragazzi e le ragazze del ‘68 volevano dare spazio alla loro creatività, liberarsi dai vincoli di un pensiero avvertito come troppo rigido e soffocante, che non dava spazio al nuovo e imprigionava il comportamento in regole asfittiche. Lo slogan preferito e più conosciuto di quegli anni era «La fantasia al potere», che ben esprime questo sogno di novità. Molti sentivano che l’energia vitale legata alla sessualità era stata ingiustamente imbrigliata, che i ruoli sociali erano troppo rigidi, che le donne non avevano spazio sufficiente per esprimere se stesse.

C’era il desiderio di dare una scossa decisa a un mondo nel quale la forma aveva forse finito per inghiottire la sostanza. O gni generazione desidera il cambiamento, e il passaggio tra una generazione e l’altra prevede sempre aspetti traumatici, perché per diventare adulti i figli devono in qualche modo “uccidere” sul piano simbolico i propri genitori. La generazione del ’68 ha agito questo compito simbolico in modo particolarmente violento, anche sulla scia di un movimento di pensiero fortemente influenzato dalla psicoanalisi con le sue istanze di rivalutazione del valore delle emozioni e delle pulsioni. Si volevano scardinare modi di vivere e abitudini che apparivano irrigidite dal tempo. L’uccisione simbolica dei padri dovrebbe costituire un passaggio cruciale per fare propria la loro eredità; andare al di là dei padri, accogliere ciò che ci hanno lasciato di buono, ma fecondarlo e trasformarlo con nuove energie e nuovi pensieri è ciò che costituisce il passaggio di testimone tra generazioni. Conservare e abbandonare, trasmettere e rinnovare, sono i due poli vitali di questo passaggio.

Ma l’eredità più importante e più preziosa che ogni padre può trasmettere al figlio è quella di aprire in lui il desiderio di diventare a sua volta padre. Il “dono del padre” è in ultima istanza proprio la potenzialità generativa: la trasmissione della fiducia nel futuro, la passione per la progettualità, il desiderio di rendere il mondo più ricco con il proprio contributo. Per trasmettere questo dono ogni adulto deve riuscire ad accettare di inserirsi nello scorrere del tempo, per lasciare spazio alla nuova generazione e sostenerla nel suo sforzo di novità.

Quando giunge il tempo opportuno, i padri devono accettare di venire superati dai figli: superati dalle loro idee e dai loro progetti, che portano avanti sogni nuovi. La generazione dei padri deve avere la generosità di mettersi progressivamente da parte in favore dei figli. Guardando a ciò che è accaduto, credo che la mia generazione abbia preso una posizione diversa: ha cercato di fermare su di sé il tempo, bloccando così il passaggio del testimone. La generazione nata dalla cultura del ‘68 ha rifiutato di inserirsi nella catena di trasmissione dell’eredità e non ha avuto il coraggio di assumersi la propria (imperfetta) paternità. Ribellandosi ai limiti (reali) dei padri, ha preferito mantenere per sé lo status perenne di figli, scegliendo di uscire dalla logica dello scorrere del tempo che conduce alla morte, e di inseguire il sogno onnipotente dell’eterna giovinezza: il sogno di rimanere perennemente giovani e perennemente al centro della scena, come unici, veri e definitivi artefici di ogni possibile novità della vita.

Per fare questo, abbiamo costruito e sostenuto con ogni energia una nostra mitologia autocelebrativa, fatta di parole d’ordine, immagini, canzoni, personaggi; ancora oggi i nipoti ascoltano le nostre canzoni, celebrano i nostri indistruttibili miti, ci invidiano la nostra “rivoluzione”, che sembra rappresentare un punto di svolta insuperabile. Abbiamo occupato completamente la scena rifiutandoci di farci da parte; non abbiamo lasciato alle generazioni successive nessuna possibilità, se non quella di costruire una mitologia vacua (come ci mostrano celebratissimi influencere personaggi famosi) o distruttiva, come ci testimoniano l’impressionante frequenza dei gesti autolesivi negli adolescenti e il proliferare di seguitissime serie televisive in cui la distruttività è protagonista. Il rifiuto della nostra generazione di assumere lo status generativo adulto ha voluto dire anche decidere per una sessualità e un’affettività sempre adolescenziali, aperte, non “limitate” dal reale. Il matrimonio e la famiglia come luoghi di impegno e responsabilità hanno subìto un decisivo attacco.

Abbiamo investito sull’illusione di un corpo che non invecchia, di una bellezza che non sfiorisce; abbiamo costruito la narrazione di una felicità basata su storie sempre aperte, che non ci legano, che non impegnano la nostra responsabilità. Ma poiché la realtà non muta e il tempo non cessa di scorrere, perché l’illusione fosse possibile è stato necessario anche modificare progressivamente le nostre immagini e il nostro linguaggio.

Per poter rimanere eterni protagonisti non siamo stati capaci di incoraggiare abbastanza i nostri figli a prendersi il mondo; li abbiamo invece sospinti poco alla volta in un limbo fatto di piccoli piaceri a portata di mano: una sorta di paese dei balocchi che prolunga l’adolescenza, un luogo che vorremmo protetto dall’esperienza del dolore, ma che impedisce la crescita. Perché stimolarli a pensare, a progettare, a pensare in grande? Perché lasciar loro scoprire che possono non avere paura; che possono, se solo lo vogliono, rinnovare davvero la vita con i loro sogni? Perché spingerli all’”uccisione del padre”? Meglio in fondo che si accontentino di “giocare”, con il sesso, con le droghe, con la tecnologia, lasciando alla generazione dei forever young l’ultima parola su ciò che conta davvero, e perpetuando l’idea che la loro (la nostra) sia stata l’unica vera e sola “rivoluzione” ancora possibile.

Questa operazione culturale forse inconsapevole ha comportato come conseguenza anche quella di renderci prigionieri del nostro stesso progetto, perché solo chi accetta di diventare adulto può dare vita a progetti davvero generativi. Evitare di entrare nel tempo, non accettare di invecchiare e di morire, rifiutare la necessità e la bellezza di passare ad altri il testimone, significa non sviluppare mai a pieno la propria generatività. Siamo così diventati una generazione per molti aspetti sterile, e incapace di trasmettere ai (pochi) figli comunque nati il “dono del padre”.

Gli adulti-adolescenti (“adultescenti” come vengono oggi chiamati) si avvicinano al tramonto senza aver goduto a pieno la meravigliosa esperienza di aver moltiplicato la vita; spesso sembrano passati direttamente dall’adolescenza alla vecchiaia, senza aver dato frutti. Quando è così, non è facile confrontarsi con questa realtà; se la vita sfiorisce accompagnata da un vissuto irreparabile di sterilità, non è facile essere davvero dalla parte di chi può ancora essere fecondo.

La generazione dei figli si trova dunque sotto l’attacco inconsapevole dell’invidia dei padri e delle madri, che a causa di questo inconscio sentimento invidioso non possono sostenere e incoraggiare nei figli veri progetti di vita e fiduciosa apertura al futuro. Forse per questo la nostra cultura legittima e incoraggia progetti di morte, che si ammantano però sempre di un’apparente ragionevolezza: si fa intendere ai più giovani che è meglio non soffrire, non rischiare, e soprattutto non osare di varcare il perimetro del conformismo gelido del politicamente corretto che noi stessi abbiamo stabilito. Le nuove generazioni dovrebbero provare a credere di più in se stesse, prendere coraggio e ribellarsi finalmente a noi, adulti troppo spesso sterili: rimane ancora molto da scoprire, da pensare, da inventare; non tutto è stato detto, e il mondo ha bisogno dello sguardo nuovo dei loro occhi, capaci di vedere cose che noi non vediamo. Il mondo ha bisogno di venire travolto ancora una volta dalla meravigliosa irruenza della vita, che solo le nuove generazioni possono portare.

Fonte: Mariolina Ceriotti Migliarese | Avvenire.it