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Un’epoca di catastrofi e paure

Siamo fragili e impauriti. E questi sono sempre, nella storia, i momenti in cui si commettono gravi errori

Questo millennio è stato inaugurato dall’annuncio di una catastrofe: il temutissimo millennium bug che poi si rivelò la prima grande fake news del nuovo secolo. Ma il vero inizio di questo tempo nuovo avvenne un giorno di settembre, quando migliaia di persone innocenti furono bruciate, asfissiate, costrette a gettarsi nel vuoto da terroristi suicidi incapaci di accettare che potesse esistere qualcosa o qualcuno che avesse una religione diversa dalla loro.

E poi, come nella sequenza di «Arancia meccanica» nella quale Malcolm McDowell ha gli occhi sbarrati artificialmente, sono passate davanti ai nostri occhi le immagini di Atocha, della metropolitana di Londra, della redazione di Charlie Hebdo , della spiaggia insanguinata di Sharm El Sheik, del Bataclan, dei ragazzi uccisi a Utoya, dei bambini sequestrati di Beslan, di Aleppo o Grozny rase al suolo, le stragi dei migranti e le catastrofi ambientali. Poi la crisi economica del 2008. E la pandemia, con cinque milioni di morti, le case diventate prigioni, il distanziamento sociale che per molti adolescenti è diventato interruzione della vita. Ora le città bruciate alle porte dell’Europa, i milioni di profughi, i bambini con le generalità scritte sulla schiena, le donne stuprate, le fosse comuni. Persino le voci spaventose sull’uso di forni crematori mobili per cancellare gli orrori compiuti.

Sami Modiano, sopravvissuto allo sterminio degli ebrei, ha spesso raccontato dell’orrore che aveva vissuto, in quell’inferno al quale nulla mai può essere paragonato. A me disse tra le lacrime, una volta, che era successo «Tutto davanti a questi occhi».

Come siamo diventati noi, ora? Come ci ha cambiato tutto questo dolore? E come riusciamo a vivere, ogni giorno, portando sulle spalle questo pesante mantello di paure? Le generazioni nate nel dopoguerra si sono vantate a lungo di essere le prime, in Europa, a non aver conosciuto la guerra. Il Novecento è stato un secolo breve ma pieno di sangue. Versato in trincea, sotto i bombardamenti o lottando, in Spagna o a Praga, per la libertà dalle dittature.

Eppure ora siamo come pugili suonati, avvertiamo il rischio di finire al tappeto. L’uno-due di pandemia e guerra ci ha mostrato tutte le nostre fragilità e proprio dove meno ce le aspettavamo. Pandemia e guerra sembravano, fino solo a qualche mese fa, citazioni di un tempo lontano e sepolto. La scienza e la pace, le due grandi creature del Novecento, si sono mostrate invece improvvisamente perforabili. Come la democrazia. Siamo fragili e impauriti. E questi sono sempre, nella storia, i momenti più pericolosi. Quelli nei quali viene la tentazione di affidarsi alla sicura protezione dell’uomo forte di turno. Personalmente, spero di sbagliare, non sono sicuro che tutto ciò che sta accadendo abbia come effetto quello di far crescere automaticamente nelle opinioni pubbliche razionalità e altruismo. Temo invece che gli inevitabili effetti sociali di questa guerra, innestati sul paesaggio economico minato dalla pandemia, possano generare, con l’inquietudine e il rischio di retrocedere nei livelli di vita, un sussulto di nuovo populismo, un fascino per le soluzioni autocratiche.

I regimi autoritari hanno bisogno della paura. Le democrazie necessitano della speranza.

Da queste crisi è emersa una sola buona novella. La più grande costruzione degli ultimi secoli, un continente unito nel segno della libertà e della democrazia, ha fatto, sospinta dalle crisi, degli importanti passi in avanti. L’Europa ha reagito bene alla pandemia e alla guerra. Ma ora deve compiere il passaggio ulteriore: munirsi di una comune politica estera e di difesa e accelerare verso l’unica soluzione ai rischi per la pace nel continente: la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Una comunità di centinaia di milioni di cittadini che, sotto il segno della democrazia, contribuisca a costruire un nuovo ordine mondiale. In fondo i padri dell’idea di Europa la fecero balenare proprio dal confino, quando i limiti degli Stati del continente erano cosparsi di sangue europeo.

Putin pensava di concludere questa guerra infame in poco tempo, di cancellare in un battibaleno quel popolo e quello Stato di cui nega la stessa esistenza, di trovare un’Europa divisa e balbettante. Quella degli anni scorsi. Non è andata così, fin qui. Putin potrà ora accettare una soluzione negoziale oppure prolungare e inasprire drammaticamente il conflitto. Questa è divenuta la secca alternativa del momento. E, se l’Europa unita non lascerà solo chi sta coraggiosamente resistendo a un’invasione, l’eterna lotta tra autocrazia e democrazia potrà volgere verso la soluzione auspicata da tutti i cittadini che amano, vogliono e difendono il diritto di essere se stessi. Perché è proprio la libertà di ciascuno la vera posta in gioco, nelle fosse comuni e nei palazzi sventrati che ogni giorno scorrono davanti ai nostri occhi.

Fonte: Walter Veltroni | Corriere.it

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