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Passeremo più tempo nel Metaverso di Facebook che nel mondo reale? Esperti a confronto

L’ex Ceo di Google Eric Schmidt prevede che «il mondo diventerà più digitale che fisico». Le (opposte) opinioni di Francesco Varanini e Stefano Quintarelli

Più che un mero cambio di denominazione, un’autentica dichiarazione d’intenti. Da Facebook a Meta: per il colosso di Mark Zuckerberg un rebranding utile non solo a distogliere l’attenzione da un marchio ormai irrimediabilmente associato a fake news e disinformazione, ma anche (e soprattutto) a rivelare al mondo in cosa consisterà il suo futuro core business. «Mi aspetto che nel giro di cinque anni – confidava a luglio il Ceo – le persone ci vedranno non come un’azienda di social media, ma come una compagnia del metaverso». Nulla comunque di cui stupirsi, considerati i ben 10 miliardi di dollari che Menlo Park sta investendo in questi mesi nella divisione Reality Labs. Anche per evidenti ragioni di riservatezza industriale, del Metaverso che ne verrà fuori non si conosce ancora molto. Abbastanza, però, per aver già suscitato le prime perplessità tra osservatori e addetti ai lavori.

Di cosa si tratta

Come lasciato intendere dallo stesso Zuckerberg durante il Facebook Connect del 28 ottobre, quella su cui i suoi ingegneri stanno lavorando è un’«evoluzione dell’Internet mobile» in cui, attraverso visori per la realtà virtuale e applicazioni ad hoc, sarà possibile immergersi in uno spazio digitale all’interno del quale compiere una lunga serie di attività insieme ad avatar di persone che nello stesso momento si trovano altrove. Non si parte da zero: accessori come gli Oculus Quest e i RayBan Stories rappresentano i primi passi della company verso la costruzione delle porte d’accesso alla sua dimensione parallela. Inoltre è stata anche ideata ReSkin, una pelle robotica hi-tech in grado di simulare le sensazioni tattili. Sembra una distopia uscita da Black Mirror, nonché uno scenario molto simile a quello del film «Lei» di Spike Jonze. Invece è la realtà. Sempre che di una sola realtà, quasi come se ci si trovasse di fronte alle due pillole di «Matrix», a questo punto si possa effettivamente continuare a parlare.

La previsione di Schmidt

Tra la miriade di commenti al Metaverso diffusi nelle ultime settimane dagli organi di stampa di tutto il mondo, uno particolarmente critico è arrivato domenica 30 ottobre nientemeno che dall’ex Ceo di Google Eric Schmidt: «Tutte le persone che parlano dei metaversi – ha dichiarato al New York Times – raccontano di mondi più gratificanti di quello vero: sei più ricco, più affascinante, più bello, più potente, più veloce». Poi la fosca previsione: «Tra qualche anno credo che le persone sceglieranno di passare più tempo con un visore in testa che nel mondo reale». In altri termini, tenderanno ad autodissociarsi completamente da tutto ciò che le circonda. Roba da far impallidire la dipendenza da social network e smartphone che tanti disturbi sta causando in particolare agli utenti più giovani. Una Second Life versione 2.0 destinata, secondo Schmidt, a recuperare il terreno perduto. «E chi stabilisce le regole? Il mondo diventerà più digitale che fisico – ha poi aggiunto l’ex Google, fresco di laurea ad honorem in Direzione Aziendale all’Università di Bologna –. E questa non è necessariamente la cosa migliore per la società umana». Ma sarà davvero così?

Un problema di cittadinanza

«Va anzitutto detto che Schmidt non è un semplice tecnologo, ma un lobbista in grado di incidere sugli equilibri del settore – premette al Corriere il formatore e consulente Francesco Varanini, presidente di Assoetica e autore nel 2020 del saggio “Le cinque leggi bronzee dell’era digitale e perché conviene trasgredirle” (Guerini e Associati) –. Ciò precisato, quella che solleva è indubbiamente una questione molto rilevante, perché il Metaverso rischia di rappresentare una lesione della cittadinanza per come la intendiamo oggi. Se infatti nel mondo reale ognuno di noi ha diritti garantiti e, perlomeno in Occidente, contribuisce in prima persona alla definizione delle leggi che regolano la vita sociale, civile e politica del proprio Paese, nel Metaverso si viene spostati su un nuovo terreno dove la cittadinanza tradizionale non vale più e la definizione stessa di cittadino è affidata a un’autorità che detiene monopolisticamente le chiavi di quel terreno. Si diventa dunque cittadini soltanto nel momento in cui si acconsente alla profilazione obbligatoria, e questo è uno spostamento logico e filosofico che tocca tutti: dallo Stato di diritto si ritorna al sovrano illuminato che stabilisce le leggi e concede diritti a suo piacimento».

Da questo punto di vista per Varanini le preoccupazioni di Schmidt sarebbero quindi giustificate in quanto «la maggiore immersività e la maggiore immediatezza di questo mondo artificiale renderanno più passive e vulnerabili le persone meno abituate a esercitare i propri diritti di cittadini, riducendole a utenti-sudditi».

La cultura e lo sviluppo cognitivo

Sempre a giudizio di Varanini il Metaverso avrebbe inoltre conseguenze deleterie sotto il profilo culturale: «Pensiamo alle tantissime differenze che intercorrono tra i Paesi e, ancor più, tra i continenti del mondo. Ebbene, si passerà da culture legate alla storia, alle tradizioni e alle lingue nazionali a uno standard universale definito da queste piattaforme. Sarà un livellamento generale». In aggiunta non mancherebbero conseguenze sullo sviluppo cognitivo degli utenti stessi: «Inutile negarlo – prosegue –: se l’essere umano demanda troppi aspetti della propria esistenza a delle macchine automatiche si depaupera, si isterilisce. Non vedo dunque nulla di conveniente nel passaggio a un mondo interamente virtuale. La sfida, di qui in avanti, starà perciò nel mantenersi lucidi per leggere correttamente la situazione».

Giudizio avventato

Molto diversa l’opinione in proposito dell’informatico e imprenditore Stefano Quintarelli, pioniere di Internet in Italia, consigliere dell’Associazione Copernicani e presidente del comitato di indirizzo dell’AgID: «Sembra un gioco di parole – esordisce –, ma ritengo che quelle di Schmidt siano affermazioni che piacciono molto alle persone a cui piace questo genere di affermazioni». Tradotto: non c’è ancora motivo per azzardare previsioni tanto nette. «Nonostante i primi esperimenti con la realtà virtuale risalgano a fine anni Ottanta – spiega –, manca ancora molto al giorno in cui avremo a disposizione una tecnologia adatta a far vivere a lungo le persone all’interno di una realtà virtuale immersiva. Sarebbe quindi opportuno riparlarne tra un bel po’».

Soprattutto però non è affatto certo che l’avvenire di Internet sarà nel segno della completa virtualità: «Mi aspetto che le principali applicazioni del futuro siano una via di mezzo tra il Metaverso che ha in mente Zuckerberg e la realtà aumentata di Microsoft, che invece si basa su quella fisica – prevede ancora Quintarelli –. Un ambiente totalmente virtuale, infatti, serve a ben poco. Imprescindibile sarà dunque un certo grado di integrazione con il mondo reale, a meno che non si voglia restare immobili con il visore in testa. Logitech nei mesi scorsi ha lanciato una tastiera fisica che può essere associata a Oculus Quest 2 per essere visualizzata digitalmente. È però soltanto uno dei tantissimi oggetti che dovranno essere ibridati. Poniamo di voler bere un caffè: bisognerà ibridare anche la tazzina. Ecco perché secondo me si giungerà a una via di mezzo: per alcune applicazioni andrà meglio la realtà virtuale, per altre quella aumentata. Di conseguenza ambienti come il Metaverso non rappresenteranno mai, salvo rarissimi casi, l’interezza della vita di una persona».

Opportunità superiori ai rischi

Più opportunità che rischi In quest’ottica il rischio che il mondo virtuale finisca per acuire il problema della dipendenza dalle tecnologie digitali diventa relativo: «Noi tutti siamo dipendenti da qualcosa – osserva Quintarelli –: chi dalla poltrona, chi dal cioccolato, chi dallo shopping. Le dipendenze sono tante e, se viste sotto un’altra prospettiva, possono essere anche definite passioni. Perciò ci sarà sicuramente anche chi proverà una grande passione per la realtà virtuale. Il settore dei videogiochi, per esempio, ne gioverà tantissimo».

Da ciò deriva che le opportunità saranno di gran lunga superiori ai rischi: «Prendiamo il fuoco – dice –: immagino che gli ominidi che lo scoprirono si siano scottati o abbiano incendiato le loro capanne. Poi però abbiamo potuto mangiare la carne. Come tutte le cose di questo mondo, anche la realtà virtuale avrà aspetti sia positivi che negativi. Bisognerà giusto educare le persone a trarne il meglio, non il peggio».

L’interoperabilità

Infine Quintarelli, da sempre promotore della neutralità della Rete, si sofferma sull’importanza dell’interoperabilità: «I regolatori hanno capito che è un valore, per cui credo che non consentiranno la creazione di un ambiente chiuso in mano a un soggetto dominante sul modello di WhatsApp. Dal mio punto di vista, quindi, o il Metaverso sarà aperto e interoperabile oppure resterà un’applicazione chiusa di proprietà di un’azienda anziché di tutti gli utenti».

Per Varanini, invece, nella sostanza non cambierebbe nulla: «Anche se poggiasse su un modello peer-to-peer il Metaverso non sarebbe migliore – afferma –. Non a caso diffido di chi sostiene che la soluzione per sopperire alla diminuzione della socialità dovuta alla pandemia consista nell’aggiungere ulteriore tecnologia. Io dico: siamo esseri umani, torniamo a vederci di persona, non come avatar. Beninteso, amo l’innovazione, ma penso che sia pericoloso dire che bisogna spargere fiducia nella convinzione che la tecnologia ci salverà. Al contrario, sarebbe meglio spargere cautela, perché nel mondo dell’intelligenza artificiale i rischi ci sono, e non sono pochi».

Fonte: Alessandro Vinci | Assoetica.com

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