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«Non serve l’atto di nascita»: via libera ai figli dei gay

La Corte di Giustizia europea ieri ha deciso di imporre a tutti gli stati membri dell’Unione che i genitori dello stesso sesso e i loro figli devono essere riconosciuti come una famiglia in tutti gli stati membri. Lo Stato deve rilasciare al bambino una carta d’identità o un passaporto senza esigere anche un certificato di nascita.

Il tiranno europeo bussa all’uscio di casa nostra, dopo gli assalti all’arma bianca per cancellare il Natale e insultare la Vergine Maria, in ossequio allo spartito sperimentato sia dal regime sovietico, sia da quello nazista nel secolo scorso, ora si passa alla imposizione di un nuovo modello famigliare e di figliolanza. È chiaro come il sole che in un nessun articolo di alcun Trattato europeo si riconosca alle istituzioni del continente una benché minima competenza in materia di diritto di famiglia. È altrettanto assodato che ogni Stato ha le sue leggi di cittadinanza.

La Corte di Giustizia europea ieri ha deciso di imporre a tutti gli stati membri dell’Unione che i genitori dello stesso sesso e i loro figli devono essere riconosciuti come una famiglia in tutti gli stati membri. In una storica sentenza la Corte di giustizia europea ha detto che, se un paese riconosce una relazione genitoriale con un bambino, allora ogni stato membro dovrebbe fare lo stesso per garantire il diritto del bambino alla libera circolazione.

Il caso giudiziario (Giudizio nel caso C-490/20) nasce dopo che le autorità bulgare avevano rifiutato di concedere un certificato di nascita alla figlia neonata di una coppia dello stesso sesso sulla base del fatto che un bambino non può avere due madri. La bulgara Kalina Ivanova e la britannica Jane Jones, nata a Gibilterra, sono entrambe registrate in Spagna come le madri di Sara, nata anch’essa nella penisola iberica nel 2019. Nessuna delle due donne è di origine spagnola, il che significa che la cittadinanza in quel paese non è consentita e secondo la legge sulla nazionalità britannica del 1981, Jones non può trasferire la cittadinanza britannica a sua figlia in quanto è nata a Gibilterra.

Su questa base, la Ivanova aveva richiesto la cittadinanza bulgara per sua figlia, che è stata successivamente rifiutata poiché i matrimoni e le unioni tra persone dello stesso sesso non sono legalmente riconosciuti in Bulgaria. Di conseguenza, Sara è rimasta apolide, senza accesso alla cittadinanza, senza poter lasciare il paese di residenza della sua famiglia, la Spagna e senza documenti personali, limitando così il suo accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e alla sicurezza sociale.

Ebbene la Corte di Giustizia ha deciso che alla bambina deve essere rilasciato un passaporto bulgaro e questo varrà per tutti i paesi membri dell’Unione Europea che non garantiscono il riconoscimento dei figli delle coppie LGBTI, né riconoscono pienamente quelle “famiglie” arcobaleno. Ovviamente il capo del team legale dell’ILGA europea, la potentissima e finanziatissima lobby internazionale LGBTI, Arpi Avetisyan, ha detto al Washington Post che la sentenza porta «il tanto atteso chiarimento che la paternità/maternità stabilita in uno Stato membro dell’UE non può essere disconosciuta da un altro, con la scusa di proteggere l’identità nazionale» e si è felicitato per questa «vera e propria testimonianza che l’UE è un’unione di uguaglianza e non vediamo l’ora di vedere le famiglie arcobaleno godere del loro diritto alla libertà di movimento e di altri diritti fondamentali su un piano di parità con chiunque altro».

La Sentenza non potrà essere appellata, altri casi simili verranno portati alla attenzione delle magistrature nazionali dei singoli paesi ma, qualunque governo nazionale da ieri è ben conscio che con questa interpretazione del diritto di libertà di movimento, pur palesemente usato strumentalmente, stravolge ogni Trattato sulle competenze nazionali in materia di matrimonio e cittadinanza e di fatto impone a tutti gli Stati la piena e totale equivalenza tra unioni LGBTI e matrimoni, cittadinanza ai figli e, indirettamente, il riconoscimento della maternità surrogata (lo Stato deve «rilasciare a tale bambino una carta d’identità o un passaporto senza esigere anche un certificato di nascita», né che «che le autorità nazionali dal paese membro da cui proviene redigano preventivamente un certificato di nascita»).

Come si è arrivati sino a qui? Primo: La Corte di Giustizia già decidendo a favore del riconoscimento di una coppia LGBTI in Romania per motivi di lavoro nel 2018, aveva deciso di stracciare le competenze nazionali in materia di matrimonio e imposto la propria interpretazione del diritto di libertà di movimento (Sentenza C‑673/16 Coman-Hamilton). Secondo: negli ultimi anni la Commissione ha dichiarato le persone LGBTI e i dogmi del gender una priorità assoluta (si vedano discorsi di Ursula Von der Leyen, Vera Jurova, Helena Dalli e Franz Timmerman). Terzo: l’iniziativa di una consultazione ‘popolare’ della Commissione (19 maggio-25 agosto), sui diritti delle coppie LGBT per un pieno riconoscimento dell’omogenitorialità e dei relativi bambini (spesso ottenuti da maternità surrogata o fecondazione eterologa), nonostante i risultati vadano nel oltre il ridicolo per la partecipazione (389 persone o associazioni). Quarto: le molteplici iniziative del Parlamento europeo, dalla dichiarazione di Europa zona di libertà LGBTI a quella sul riconoscimento dei matrimoni LGBTI in tutti i paesi membri.

 

Fonte: Luca VOLONTE’ | LaNuovaBQ.it

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