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Meghan Markle, quel forte crampo mi diceva che stavo perdendo mio figlio

In un articolo scritto di suo pugno Meghan Markle racconta del suo recente aborto spontaneo: “Perdere un figlio significa portare addosso una pena insostenibile, di cui tanti fanno esperienza e pochi parlano”

Ieri il New York Times ha pubblicato uno scritto intimo in cui Meghan Markle racconta di aver vissuto l’esperienza di un aborto spontaneo lo scorso luglio. Era a casa da sola con il figlio Archie e un crampo le ha segnalato che qualcosa non andava. Lei ha capito subito tutto, in ospedale anche il marito Harry era inconsolabile.

Un dolore insostenibile

Quando si cita il suo nome, si rischia di rimanere schiacciati dalle premesse (… e dai pregiudizi). Meghan Markle? Ma chi, quella che ha fatto tutto quel putiferio a Buckingham Palace? Quella che si è messa nel calderone del #MeToo? Quella che sostiene le battaglie LGBTQ?

L’errore madornale che facciamo con gli altri  – ma guai se loro lo fanno con noi! – è giudicare ogni azione presente con il setaccio dei precedenti. Mettiamo sempre le nuvole davanti al sole ed è ben vero che nessuno su questa terra è un sole luminoso e impeccabile. Il pregiudizio ci impedisce di vedere l’ovvio, e cioè che anche il nostro peggior nemico, o l’antipatico di turno o il vip ricco e bello, quando soffre, soffre davvero.

Dopo aver cambiato il pannolino a mio figlio, ho sentito un crampo forte. Sono caduta per terra con lui in braccio, e mi sono messa a canticchiare una ninnananna per tranquillizzare entrambi, quel motivetto allegro era in netto contrasto con la mia sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Lo sentivo, mentre tenevo in braccio il mio primogenito, stavo perdendo l’altro figlio. (da New York Tymes)

Chi ha vissuto l’esperienza di un aborto spontaneo si ritroverà nelle parole di Meghan. Uno spiazzante imprevisto, qualcosa che lascia impotente la madre, qualunque madre. Quando capitò a me, anche io capii subito che il figlio che aspettavo stava morendo. Ci fu un giorno intero di attesa per dichiarare ufficialmente interrotta la gravidanza, vada a casa e stia a riposo. L’attesa più dura di cui abbia memoria, perché non potevo fare niente per chi amavo. Da allora ho la nausea quando il ritornello femminista ripete che la donna può fare quel che vuole con il suo corpo: quella volta, pur volendolo con tutta me stessa, non ho potuto far niente.

A rovescio, nel modo peggiore possibile, un aborto spontaneo mette una madre a tu per tu con la chiarezza che il corpo che accoglie un figlio non è solo suo.

Il dolore di una madre e di un padre per un aborto spontaneo

È un’esperienza frequente e terribile, eppure se ne parla poco. Meghan ha aperto la porta di casa sua in modo diretto e senza fronzoli, raccontando i giorni di ospedale e quelli successivi, condivisi con il marito Harry:

Qualche ora più tardi, ero ricoverata in ospedale e mio marito mi teneva la mano. Sentivo il suo sudore e gli ho baciato le nocche, bagnate dalle lacrime di entrambi. Con lo sguardo fisso sui muri freddi e bianchi, i miei occhi si appannavano. Provai a immaginare come quella ferita si sarebbe rimarginata. (Ibid)

Ancora più taciuto è il dolore dei padri nella circostanza di un aborto spontaneo. C’è ed è più ostico farci i conti, perché mentre la donna sente fisicamente male nel suo corpo, il papà vive tutto con una “lontananza” che può anche farlo sentire in colpa o comunque portato a mettersi in disparte. C’è il rischio che la sofferenza maschile passi inosservata, che lui stesso la nasconda, perché è la mamma che sta male, è lei quella che viene ricoverata. 

Insieme è la parola chiave anche in questa circostanza. Noi mamme non dobbiamo temere di farci vedere vulnerabili, ma ci è chiesto anche di fare un salto oltre l’ostacolo: è altrettanto necessario che anche il padre del bambino sia aiutato a manifestare la sua vulnerabilità per quella perdita.

Perdere un figlio significa portare addosso una pena insostenibile, di cui tanti fanno esperienza e pochi parlano. Mentre soffrivamo per la nostra perdita, io e mio marito abbiamo scoperto che su 100 donne presenti in una stanza, da 10 a 20 hanno vissuto un aborto spontaneo. Eppure, a fronte dell’impressionante frequenza di questo dolore, parlarne resta un tabù, che si mescola con la vergogna (che non ha ragione di essere). Si perpetua così un ciclo di cordoglio solitario. (Ibid)

Va tutto bene?

Come si rompe il guscio di solitudine in cui il lutto è vissuto quasi di nascosto? A questa domanda Meghan risponde allargando un po’ a macchia d’olio i suoi pensieri. Ci butta dentro la pandemia, il fenomeno del negazionismo, le elezioni statunitensi, le proteste di #BlackLivesMatter. Esonda, insomma, con un tono molto più fake dell’intimità sincera con cui ha rotto il silenzio.

Il pericolo dell’isolamento e della solitudine richiede semplici gesti di presenza dichiarata. Meghan ricorda in suo arrivo a New York da ragazza, un lungo tragitto in taxi durante il quale vide, di passaggio, una donna che piangeva per strada. Chiese al tassista se non fosse il caso di fermarsi ad aiutarla, lui la rassicurò:

Mi spiegò che i Newyorkesi vivono la loro vita privata in pubblico: “Ci amiamo in mezzo alla città, piangiamo per strada, le nostre emozioni e storie le facciamo vedere a chiunque. Non preoccuparti, qualcuno dietro l’angolo andrà a chiedere a quella donna se è tutto OK”.  Ora, a distanza di tanti anni, in pieno isolamento da lockdown e soffrendo per la perdita di un figlio […] penso a quella donna di New York. E se nessuno poi si fermò? Se la sua sofferenza nessuno l’ha vista? Se non ha ricevuto aiuto?

Vorrei tornare indietro e fermare quel taxi. Questo, mi rendo conto, è il pericolo della vita da grattacielo – dove momenti di tristezza, paura o di sacrosanta felicità sono vissuti in solitudine. Non c’è nessuno che si ferma a chiedere: “Va tutto bene?”. (Ibid)

Capisco la tensione di cui si fa portavoce Meghan, e senz’altro chiedere “va tutto bene? ” è più sincero di scrivere “andrà tutto bene”. Fermarsi, accorgersi del dolore altrui, condividerlo. E’ l’inizio di una strada buona per arginare il pericolo che il mio vicino, il mio amico non sprofondi nel pozzo delle sue tenebre.

Quella stessa strada ci porta anche a camminare oltre. Perché la risposta onesta alla domanda posta è che non va bene. Ed è altrettanto sacrosanto dirselo guardandosi negli occhi, ma per qualcosa di più coraggioso di un lamento. La vera compagnia che possiamo farci è che il bene non è un aggettivo qualificativo delle emozioni o delle giornate, ma è una Persona che ha camminato tra noi e da allora è presente proprio dentro le ferite insanabili

Fonte: Annalisa TEGGI | IlSussidiario.net

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