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Inchiesta. Aborto a casa con la Ru486, Londra scopre 13 “incidenti” con due donne morte

L’uso domiciliare della pillola abortiva in Inghilterra, che copre il 73% degli aborti, ha provocato durante il lockdown una serie di episodi drammatici sui quali le autorità stanno indagando.

L’aborto farmacologico ai tempi del coronavirus nel Regno Unito, Paese tra i più liberali in Europa nella cosiddetta salute riproduttiva, è sempre più facile e veloce. Il kit per farlo a casa, senza controllo medico, arriva per posta nel giro di quattro giorni. Per chiederlo basta una consultazione telefonica con il medico di base di appena trenta minuti.

Accolto e promosso dalle associazioni pro-choice come una qualunque prestazione di telemedicina, il servizio è stato introdotto il 30 marzo nell’ambito delle misure di emergenza dettate dalla pandemia attraverso un “temporaneo” rilassamento della legge attuale. L’occasione è ghiotta, adesso, per chi ambisce a normalizzare l’aborto in remoto facendo saltare l’obbligo – tutt’ora previsto dalle linee guida – di somministrare in ospedale la prima delle pillole abortive (il mifepristone), quella che inibisce lo sviluppo embrionale. La pietra d’inciampo su cui la svolta potrebbe infrangersi però è grossa: l’aborto fai da te è pericoloso. L’invito alla cautela arriva dagli stessi operatori sanitari che, come trapelato da un’email «urgente» del 21 maggio intercettata dall’associazione pro-life Christian Concern, segnalano il «rischio crescente» delle pillole abortive domiciliari. La comunicazione sintetizza le preoccupazioni già condivise dalla Care Quality Commission, autorità britannica per i servizi di cura e assistenza, con le direzioni sanitarie regionali, e segnala che ben 13 casi di aborto farmacologico sono finiti sotto inchiesta nelle ultime settimane. Tra i casi più gravi a cui lavorano le autorità di pubblica sicurezza ci sarebbe la morte di un bambino sopravvissuto all’aborto e di due donne che hanno perso la vita per effetto delle complicazioni insorte (sepsi ed emorragia).

Un filone specifico delle indagini riguarda l’uso improprio del kit abortivo, consegnato al domicilio di donne che avrebbero oltrepassato il limite delle 10 settimane entro cui il provvedimento straordinario del Ministero della Salute autorizza l’aborto via posta. Si sospetta che l’interruzione della gravidanza sia stata procurata anche assai oltre, fino alla 30esima settimana. L’email si chiude con un appello: «Abbiamo la necessità di capire meglio gli effetti [delle pillole] sulle donne che ricorrono al servizio offerto dalla sanità pubblica. Il bilancio tra i rischi fisici e mentali e la alvaguardia è complesso specialmente in assenza di dati».
L’apertura all’aborto “in remoto” avvenuta durante il lockdown riporta a galla il dibattito sulla sicurezza delle pillole abortive che sembrava assopito. Eppure sono i dati a dimostrare che la discussione sull’opportunità o meno di trasferire completamente l’aborto farmacologico tra le mura domestiche non può essere trascurata.

Nel 2019 sono stati registrati solo in Galles e Inghilterra oltre 207mila casi di interruzione volontaria della gravidanza, il numero più alto da quando la legge sull’aborto è stata introdotta nel 1967. Di questi, il 73% è avvenuto mediante mifepristone e misoprostolo, il 2% in più rispetto all’anno precedente. Un’enormità considerato che in Italia, per esempio, il ricorso all’aborto chimico rappresenta circa il 20% dei casi totali. È questo il motivo per cui la prospettiva di allentare le maglie della legge attuale e normalizzare l’eccezione concessa dal governo di Boris Johnson durante l’epidemia preoccupa (e non poco).

Turbata è anche la Chiesa d’Inghilterra. Le associazioni pro-life sono sul piede di guerra. Alithea Williams, della Società britannica per la protezione dei bambini non nati (Spuc), denuncia la massiccia opera di lobbying in corso da anni nel Regno Unito per deregolamentare l’aborto compiuto in ogni forma. «Alcuni deputati pensano, in buona fede, che quella in corso sia una concessione minore, utile per affrontare una crisi sanitaria – osserva – ma le associazioni pro-choice stanno già chiedendo di trasferire in maniera permanente i servizi di aborto farmacologico nell’ambito della telemedicina». I legali di Christian Concern hanno presentato un esposto alla Corte d’Appello (respinto il 29 luglio) per denunciare come illegittima la “temporanea” modifica alla legge sull’aborto, eseguita dal governa senza consultare il Parlamento.

Fonte: Angela Napoletano | Avvenire.it

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