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Proroga dell’emergenza: dallo stato di necessità a una necessità dello Stato?

1. Nei mesi trascorsi di forzata permanenza domiciliare, causata dallo scatenarsi della pandemia, con l’affievolimento di i taluni diritti fondamentali a causa della legislazione emergenziale, abbiamo constatato che lo stato di eccezione può perdere il suo connotato di eccezionalità e capovolgersi nel suo contrario: la regola può cioè da misura eccezionale convertirsi in misura “ordinaria”[1]. La protrazione della dichiarazione dello stato di emergenza va in tale direzione.

Già nel 1940 Walter Benjamin nell’ottava delle sue Tesi di filosofia della storia scriveva: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto»[2]. Un simile fraintendimento sembra essere il destino di molti di quei concetti che si situano al limite fra politica e diritto, come la guerra civile, il diritto di resistenza o la disobbedienza civile. Questa volta la metamorfosi del paradigma è determinata non tanto dall’evento straordinario in sé, ma dalla reazione che a livello istituzionale e sociale ha suscitato, trasformando un’ordinaria emergenza sanitaria in uno “stato d’eccezione”, al cui interno anche le scelte politiche vengono delegate a tecnici, trasformando l’intera vita pubblica in un laboratorio.

2. I decreti d’urgenza susseguitisi (del Governo, delle Regioni, di diversi Ministri), hanno limitato le libertà di circolazione e di iniziativa economica, profilando l’applicazione di norme incriminatrici di progressiva gravità per chi ne violi le disposizioni; i giudizi di ogni tipo e grado sono stati rinviati d’ufficio, con sospensione dei termini di prescrizione e di custodia, e attribuzione di poteri straordinari ai dirigenti degli uffici giudiziari e a varie autorità amministrative. Le istituzioni rispondono così alla “nuda vita” che reclama il suo diritto alla sopravvivenza, alla paura primaria di morire: può davvero avere ancora un senso discutere di questa produzione normativa in termini di principio di legalità e di riserva di legge, di rispetto dei limiti della decretazione d’urgenza, di riparto di competenze statali e regionali, di competenze giurisdizionali e amministrative, di norme penali “in bianco”, di sussumibilità in fattispecie di incriminazione sulla base di argomenti letterali, sistematici, a contrario, o teleologici [3]?

Il risultato di una copertura legislativa tanto vaga è la proliferazione di una serie di fonti secondarie attuative, spesso tra loro contrastanti: la pluralità e la contraddittorietà delle fonti attuative rappresenta la cifra differenziale del sovrano di oggi, che non si manifesta più come un organo monocratico, o comunque come un’istanza decisionale unitaria e coerente, alla stregua di quelli classici. Si manifesta piuttosto come un sovrano “diffuso”, frazionato in una pletora di istanze decisionali talora in aperto conflitto interpretativo tra loro, secondo la migliore e più avanzata espressione del “babelismo” postmoderno[4].

3. Ha fatto molto discutere un breve pezzo di Giorgio Agamben[5], per il quale il lockdown decretato dal governo è «un comportamento sproporzionato», che costituisce l’ennesima manifestazione di una tendenza di fondo, e non nuova, della nostra politica: «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo», una tendenza che caratterizza un disegno politico autoritario nascosto ma sistematico. Lo stato di eccezione, sostiene Agamben, è la sospensione delle ordinarie garanzie liberal-democratiche, cioè dell’insieme di diritti e di libertà garantite in una liberal-democrazia. Questa sospensione si ottiene interrompendo le procedure che le liberal-democrazie prevedono a difesa di diritti e libertà: per esempio, non facendo funzionare i vari organismi di controllo, soprattutto il Parlamento, oppure annullando la divisione dei poteri (come avviene nel momento in cui è il governo che legifera e le Camere si limitano a ratificare, quasi sempre con voto di fiducia). E tutto questo per garantire la sopravvivenza, in condizioni di emergenza.

Ma, avverte Agamben, il Leviatano – cioè il potere politico – è un mostro capriccioso, che può sfuggirci di mano, se non lo addomestichiamo e lo tratteniamo, o se allentiamo troppo facilmente le redini. Protrarre troppo nel tempo la convinzione di trovarsi in condizioni eccezionali rischia di condurre alla tirannia e di farci perdere un bene molto più prezioso.

4. Vi è il pericolo concreto che quando questo particolare stato d’eccezione sarà solo un ricordo, il “pacchetto” giuridico predisposto per la pandemia potrebbe rimanere intatto, con tutte le sue perniciose potenzialità espansive. Sarà sufficiente sostituire il sostrato valoriale di riferimento: non più la tutela della salute, ma, per esempio, l’integrità culturale della nazione, o la volontà del popolo espressa dal suo capo carismatico, per legittimare la piena potestà decisionale dei futuri tutori del nuovo ordine.

Per quali ragioni, oggi, i soggetti politici tendono a fare dello stato di necessità una necessità di Stato? Incide certamente che la soggettività del politico tenda a esercitarsi e a realizzarsi fuori dell’orizzonte dell’etica, sia nei regimi con evidenza autoritari sia in quelli democratici: nei quali ultimi si constata a tutti i livelli, ove più ove meno, una perdita della forza del metodo democratico, ossia del confronto dialettico delle idee.

5. Nel gioco dell’inautentico l’eticità perde e si perde: per un singolare paradosso, essa trova un compagno di partita con il quale a volte è in competizione o addirittura in opposizione, l’utilità. All’ethos, che insieme al kratos fonda lo Stato, si affianca l’utile, la convenienza, che dello Stato diventa una ragione di esistenza. Già nel 1600 Spinoza vedeva nell’utilità una condizione di sopravvivenza del potere, avvertendo che, anche solo in una prospettiva meramente utilitaristica, lo Stato deve essere attento ai bisogni di libertà dei consociati, che deve riconoscere e garantire attraverso le leggi. È nel suo interesse, se vuole esistere a lungo[6]. In questo senso, si può sostenere che è interesse dello Stato non superare quel limite oltre il quale la ragione del diritto viene trascesa dalla ragion di Stato, una ragione che trova giustificazione soltanto in sé stessa in quanto ragione del potere. Quel diritto di autoconservazione che lo Stato fa valere nello stato di eccezione, avendo come fine ultimo la salvaguardia dell’esistenza dello Stato, se esercitato senza misura innescherebbe paradossalmente un meccanismo di autodistruzione: nessun potere politico può ignorare o violare a lungo il diritto e i diritti, e conservare pacificamente se stesso, sia all’interno che all’esterno. Leviathan non dominerebbe più Behemoth, sarebbe anzi esso stesso a risvegliarlo.

Se la lex non è più in grado di bilanciare il rex, la risposta è da cercare non tanto nelle leggi, che pure, moltiplicandosi in numeri a volte anche senza proporzione, dovrebbero ridurre al minimo la probabilità della sussistenza del caso non descritto nell’ordinamento giuridico, quanto piuttosto nel diritto, che con la politica, con l’economia, e con le altre attività dell’uomo, ha in comune la stessa radice: la radice etica. Se si taglia questa radice, il diritto perde il suo carattere di mediazione e relazione con la politica, per un verso, con la società civile, per altro verso: ragione senza forza diviene allora quella del diritto, forza senza ragione quella della politica. Perché non solo il politico è entrato in una crisi tendenzialmente autodistruttiva, ma anche il giuridico, con il suo formalismo, che è il segno della perdita di senso dell’eticità. Se non si recupera questo legame si moltiplicheranno, potenziandosi, gli arcana imperii, da parte del politico, gli arcana iuris, da parte del giuridico[7].

Fonte:  Daniele Onori | CentroStudiLivatino.it

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