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Fase 2 – Responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio da contagio

  1. La Fase 2 appena avviata rende indispensabile per le aziende attuare strumenti di prevenzione, per la salute dei dipendenti in primis, ma anche per fronteggiare in modo efficace, un domani, eventuali addebiti per gli infortuni da contagio che dovessero approdare nei Tribunali. La gestione degli adempimenti in tema di sicurezza sul lavoro è, infatti, oggi più che mai, strumento fondamentale per arginare i rischi di responsabilità in capo al datore di lavoro, soprattutto alla luce delle normative emerse nell’ambito della gestione della crisi sanitaria.
    I contagi accertati di infezione da Covid-19 avvenuti “in occasione di lavoro” sono tutelati, ai sensi dell’art. 42 co. 2 D.L n. 18/2020 c.d. Cura Italia, a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. Da ciò derivano svariate conseguenze in termini pratici: per il lavoratore, il quale si vedrà riconosciuta una tutela da parte dall’INAIL, ma anche in termini di responsabilità civile, penale e amministrativa per il datore di lavoro. Tale qualificazione garantisce senz’altro una ampia tutela dell’evento, in quanto l’INAIL interviene non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa, ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice “occasione”.
    Ciò risulta intuitivo per alcune categorie di lavorato sia estrinsecato il cosiddettorischio specifico che fa scattare la presunzione di esposizione professionale. Si tratta degli operatori sanitari, ma anche di quei lavoratori che svolgono attività a contatto con il pubblico. In tali ipotesi è già di per sé dimostrato il nesso di causalità tra l’insorgenza della malattia e lo svolgimento dell’attività lavorativa.
    Per gli eventi riguardanti gli altri casi, nei quali l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto, non potendosi presumere che esso sia avvenuto a causa delle mansioni svolte dal lavoratore, dovrà trovare applicazione l’ordinaria procedura di accertamento medico-legale che si avvale dei seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale. Pertanto, sebbene tali lavoratori non possano avvalersi della predetta più agevole presunzione semplice di origine professionale, essi potranno far comunque riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’azienda dove hanno operato e agli altri fatti noti dai quali sia possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti, ai fini della prova presuntiva del rapporto causale o, meglio, di occasionalità della patologia da COVID-19 con l’attività protetta.
  1. Ferma la necessità della conferma diagnostica (non è sufficiente la mera diagnosi di sospetto clinico), la tutela INAIL inizia a decorrere dal primo giorno di astensione dal lavoro attestato dalla certificazione medica per avvenuto contagio, ovvero dal primo giorno di astensione dal lavoro coincidente con l’inizio della quarantena per contagio da Covid-19. Il periodo di quarantena è interamente coperto dall’INAIL, oltre al periodo eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini un’inabilità temporanea assoluta al lavoro. I predetti eventi infortunistici non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per il calcolo dei premi assicurativi (bonus/malus).
    Se le conseguenze derivanti dalla qualificazione dell’evento morboso occorso in occasione del lavoro quale infortunio sono senz’altro positive per il lavoratore, stante la tutela riconosciuta dall’INAIL e la mancata considerazione dei periodi di assenza ai fini del calcolo del comporto, non può dirsi altrettanto sulle ripercussioni che ne derivano per i datori di lavoro. Come abitualmente accade in ambito infortunistico, infatti, si realizza in tal modo una sorta di inversione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore, che dovrà dimostrare di aver applicato ogni cautela necessaria a garantire la sicurezza del lavoro del suo dipendente.
    Ai sensi dell’art. 2087 cod.civ., invero, il datore di lavoro ha l’obbligo di prevenire tutti i rischi presenti all’interno dell’organizzazione che possono mettere in pericolo la salute e la sicurezza dei lavoratori; la norma impone, altresì, il costante adeguamento degli strumenti di protezione in relazione ai progressi tecnologici, così da assicurare ai dipendenti la protezione tempo per tempo più adatta. Naturalmente, l’adempimento di tali obblighi da parte del datore di lavoro dovrà tener conto della specificità di ciascuno scenario aziendale e la violazione degli stessi comporta una responsabilità contrattuale, con conseguente diritto per il lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno. Non è, peraltro, escluso un concorso anche di responsabilità extracontrattuale, posto che il diritto alla salute è un diritto soggettivo assoluto. In tale scenario, il datore di lavoro potrebbe essere soggetto, altresì, a sanzioni amministrative pecuniarie (articolo 55 co. 4 lett. h Decreto Legislativo n. 81/2008).
  1. Non solo. L’infortunio sul lavoro, per definizione, presuppone sempre che si sia verificata una lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore. Ipotesi, questa, sanzionata dalla legge penale attraverso i reati di lesioni colpose e di omicidio colposo (nei casi, più gravi, nei quali all’evento lesivo segue la morte del lavoratore). In entrambi i casi la “colpa”, quale elemento soggettivo del reato, consiste nella mancata osservanza delle regole che impongono l’adozione di efficaci misure di sicurezza per la tutela della salute sul luogo di lavoro. A rispondere penalmente, dunque, sarà il soggetto che nel contesto aziendale ricopre una posizione di garanzia, sul quale grava l’obbligo giuridico di impedire l’evento, ovvero, nel caso di specie, il contagio da COVID-19 nell’ambiente di lavoro.
    Occorre, inoltre, aggiungere che la qualificazione del contagio da COVID-19 in occasione di lavoro come infortunio, oltre alla sopra accennata responsabilità penale, potrebbe condurre ad un ventaglio di responsabilità in capo al datore di lavoro di natura amministrativa ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, il quale include tra i reati presupposto quello di lesioni colpose gravi o gravissime e l’omicidio colposo.
    Nel caso in cui dal contagio avvenuto sul luogo di lavoro, infatti, faccia seguito la morte del lavoratore, nonché una prognosi della malattia di durata superiore a 40 giorni, potrebbe essere configurata una responsabilità amministrativa dell’ente ex art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, derivante rispettivamente dai reati presupposto di omicidio colposo e lesioni colpose personali gravi o gravissime, per non aver posto in essere tutte le misure idonee a prevenire i reati in esame, ricavando – quale interesse e vantaggio – anche solo il risparmio di spesa per le misure di protezione non adottate. La colpa organizzativa del datore di lavoro sarebbe configurabile non solo a seguito della violazione dell’art. 2087 cod.civ., ma anche a seguito della mancata predisposizione di un’efficiente sorveglianza sanitaria sui lavoratori (ex art. 41, D. Lgs. n. 81/2008), nonché nel caso in cui non abbia provveduto a valutare i rischi derivanti dall’esposizione agli agenti biologici presenti sul luogo di lavoro (ex art. 271, D. Lgs. n. 81/2008).
  1. In tale scenario, a fronte della prova del nesso di causalità con l’occasione di lavoro fornita dal lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe dare prova di aver adottato tutte le misure idonee e necessarie, secondo la migliore scienza ed esperienza al momento note, a tutelare l’integrità fisica del prestatore di lavoro. Orbene, in uno scenario mutevole (anche e soprattutto dal punto vista scientifico) come quello nel quale le imprese sono costrette a operare in ragione dell’attuale crisi sanitaria, il rischio di attuare misure non coerenti, tempo per tempo, con la migliore scienza ed esperienza in tema di sicurezza è concreto. E ciò anche in caso di rispetto delle precauzioni imposte dal Protocollo nazionale anti-contagio del 14 marzo 2020.
    La consapevolezza della concreta esposizione al rischio di responsabilità (civile, penale e amministrativa) in caso di infortunio del lavoratore non deve, tuttavia, tramutarsi nel convincimento dell’ineluttabilità della stessa. Così, strumento primario per mitigare la posizione aziendale è, innanzitutto, attuare le misure previste dalle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 81/2008. Il Documento di Valutazione dei Rischi dovrà essere aggiornato, ove il rischio da contagio COVID-19 sia valutato come rischio professionale endogeno all’organizzazione aziendale.
    Si segnala a tal proposito che, per la maggior parte delle attività produttive che non sono a contatto con agenti biologici, il rischio da contagio COVID-19 è stato sinora considerato nemmeno quale potenziale, in quanto valutato quale rischio generico sovrapponibile a quello della “popolazione in generale”, per il quale non si rende necessario un aggiornamento del DVR. Tale linea interpretativa è stata sposata dalla Direzione Prevenzione, Sicurezza alimentare e Veterinaria della Regione Veneto e dal Dipartimento di Igiene e Prevenzione Sanitaria della Regione Lombardia, nonché dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (nota n. 89/2020). Di diverso avviso, invece, è l’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro, la quale nel documento pubblicato Covid-19: guidance for the workplace ha fornito delle linee guida per affrontare l’emergenza epidemiologica e ha rilevato che le misure di prevenzione adottate “dovrebbero essere incluse nella valutazione del rischio sul luogo di lavoro che copre tutti i rischi, compresi quelli causati da agenti biologici, come stabilito dalla legislazione nazionale e dell’Ue in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
    Sul punto, si auspica che il Governo, di concerto con le amministrazioni regionali e gli enti ispettivi, fornisca quanto prima delle indicazioni inequivoche e volte a dirimere definitivamente i dubbi interpretativi.
  1. Sempre nell’ambito delle misure prevenzionistiche, sarà necessario che l’organo amministrativo – con l’aiuto dell’RSPP e del Medico Competente – provveda ad attuare e implementare le misure igieniche di contrasto al virus e i presidi sanitari di cui ai D.P.C.M. emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri e al Protocollo d’intesa sottoscritto dalle organizzazioni sindacali in data 14 marzo 2020, considerando anche quanto riportato nel Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione recentemente emanato dall’INAIL: si tratta di un documento nel quale sono delineate prime ipotesi di misure richieste, ma si attendono più puntuali indicazioni in merito nei prossimi giorni, con l’intervento governativo all’esito del confronto con le regioni.
    Importante sarà, inoltre, aggiornare le policies aziendali sulla salute dei lavoratori e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, con il suggerimento di adottare e documentare tutte le misure di carattere organizzativo e gestionale idonee a ridurre il rischio epidemico, raccogliendo quindi qualunque documentazione, protocollo o procedura implementata in questo periodo di emergenza e creando un’appendice del DVR, allo specifico fine di documentare in maniera organica di aver agito diligentemente, a prescindere dagli ordinari precetti dettati dal D.Lgs. n. 81/2008.
    In tale ottica, potrebbe, altresì, essere consigliabile la sottoscrizione di un apposito accordo sindacale nel quale vengano illustrate le misure realizzate in vista delle riaperture degli impianti: tale condivisione delle misure di sicurezza, unitamente agli interventi in concreto realizzati, sarebbe utile a dare evidenza dell’accurato intervento del datore di lavoro e a provare – pro futuro – la non addebitabilità in capo allo stesso dell’eventuale infortunio occorso al lavoratore.
    Ruolo chiave sarà rivestito dagli Organismi di Vigilanza, aventi funzioni di supporto nel contesto aziendale e di verifica del corretto funzionamento di quanto previsto nel Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo. È evidente, in ogni caso, che la situazione datoriale, attualmente, sconti il prezzo di una incertezza scientifica – che ha condotto ad un ampliamento delle maglie dell’apparato di tutele, apprezzabile vista la gravità della crisi – che, però, potrebbe condurre a notevoli ripercussioni in termini di accertamento della responsabilità datoriale.
  1. A ciò si aggiunga, peraltro, che l’infezione da Covid-19 tutelabile può essere derivata anche da infortunio in itinere, ossia occorso al lavoratore durante il normale percorso tra il luogo di abitazione e il luogo di lavoro. Per tale evento l’accertamento medico-legale si avvarrà di altri elementi di asseverazione, in aggiunta a tutti quelli già richiamati in precedenza, come per esempio dell’esame della tipologia di mezzo utilizzato, del percorso e della frequenza degli spostamenti.
    Orbene, l’assicurazione INAIL ha da sempre garantito una tutela per gli infortuni in itinere laddove si fossero verificate le finalità lavorative, la normalità del tragitto (in termini di mezzo impiegato) e la compatibilità degli orari. L’uso del mezzo privato (automobile, scooter o altro mezzo di trasporto) è stato generalmente considerato necessitato solo qualora si fosse verificata la presenza di specifiche condizioni, come ad esempio, la sussistenza di una richiesta da parte del datore di lavoro, per esigenze lavorative, o l’impossibilità di raggiungere il luogo di lavoro con altri mezzi. Sul punto, naturalmente, l’onere probatorio è a carico del lavoratore.
    Degna di nota è la specifica circostanza che ora l’infortunio in itinere per il contagio possa essere riconosciuto anche se si utilizza il mezzo privato, senza che il lavoratore provi la necessità di impiego dello stesso. Il tradizionale orientamento dell’INAIL è stato, infatti, ribaltato dallo stesso Ente che, con Circolare del 3 aprile 2020, ha posto una presunzione di necessità, nel contesto dell’attuale scenario emergenziale, circa l’utilizzo del mezzo di trasporto privato.
    Tale presunzione di necessità del mezzo privato semplifica notevolmente l’incombenza probatoria del lavoratore: questi dovrà provare di essere stato contagiato nel tragitto di andata e ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro o viceversa, alla stregua di quanto accade con l’utilizzo dei mezzi pubblici, e non anche le ragioni per cui l’utilizzo del mezzo privato, nel caso di specie, si fosse reso necessario. La predetta interpretazione estensiva dell’INAIL – va detto, non espressamente necessita in base al dettato normativo del D.L. Cura Italia – appare certamente garantista nei confronti del lavoratore, ma si rileva – ancora una volta – foriera di ripercussioni negative per il datore di lavoro, principalmente con riferimento al danno “differenziale”, ovvero quel danno che corrisponde alla differenza tra il danno risarcibile in sede civilistica e l’importo già corrisposto dall’INAIL, che lo stesso potrà essere chiamato a liquidare.
    Invero, con l’intervento della Circolare INAIL, potrà essere riconosciuto al lavoratore l’infortunio in itinere per aver contratto il virus anche sul mezzo privato e senza che sia provata la necessità dello dell’uso dello stesso. Ciò determina una corrispondente e – ci sia permesso sommessamente di notare – ingiustificata dilatazione dell’esposizione finanziaria del datore di lavoro in termini di risarcimento per responsabilità ex art. 2087 cod.civ., volta a coprire fonti di esposizione al rischio che risultano integralmente ascrivibili alla condotta del lavoratore e al rispetto da parte di quest’ultimo delle precauzioni sanitarie dettate dagli organi amministrativi per la generalità della popolazione.
    Si ritiene, invece, non si possa configurare un aggravamento della posizione del datore di lavoro in relazione ai profili di responsabilità penale e/o amministrativa ex D.Lgs. n. 231/2001, posto che – nel contagio in itinere – non pare ipotizzabile l’adozione di misure preventive datoriali volte a evitare l’evento.
  1. Alle porte della ripresa delle attività nella c.d. Fase 2, in un contesto scientifico e normativo a dir poco incerto, è evidente che la posizione dei datori di lavoro risulti essere estremamente gravosa in ragione delle responsabilità delle quali sono onerati. Poste tali premesse, non sorprenderebbe affatto dover assistere, con il crepuscolo della fase emergenziale, a una vera e propria proliferazione di giudizi sul tema, tutti volti a far accertare la responsabilità datoriale in caso di contagio del lavoratore.
    E così, come spesso accade quando il legislatore e l’esecutivo non assolvono compiutamente al proprio ruolo, il compito di fare chiarezza sul bilanciamento dei diritti e doveri datoriali ricadrà sulle Corti del Lavoro, chiamate a fornire indicazioni più puntali in relazioni alle numerose variabili fattuali e prognostiche (momento del contagio, nesso di causalità, misure di prevenzione poste in essere dal datore di lavoro) da tenere in considerazione.
    È questo, dunque, il momento per le aziende di non farsi trovare impreparate, potenziando i sistemi di sicurezza preesistenti e implementandone di nuovi, in maniera coerente con quanto previsto dalle norme e dalle linee guida a oggi presenti nello scenario normativo. Solo così potranno, da una parte, assolvere a pieno al proprio dovere di tutela della salute dei propri lavoratori e, dall’altra, munirsi degli strumenti più adeguati a difendere in futuro il proprio operato nelle aule di tribunale.

Fonte: CentroStudiLivatino.it

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