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Da Agostino ad Heidegger, perché è così difficile “pensare” il tempo?

Fin dai presocratici la filosofia ha cercato di “pensare” il tempo. I greci coniarono una mappa di cinque termini. Charles Péguy lo mise al centro di “Véronique”

Scrive Péguy facendo parlare Clio, la musa della storia: “Negare l’eternità, amico mio, e fondare ogni cosa su di me miserabile, è cosa così volgare che si è resi avvertiti, prevenuti, vaccinati contro una così grossolana operazione. Ma negare invece la temporalità, la materia, la volgarità stessa, l’impurità, negare me, rinnegarmi, me, il temporale, ecco qui il colmo della raffinatezza, la purezza assoluta, la sublime incontaminazione…”.

Ecco, non si può negare il tempo perché significa rinnegare la nostra stessa essenza, il nostro aggancio alla realtà e la nostra umanità più profonda.

Ma cos’è il tempo? Scrive Agostino nell’XI libro delle Confessioni: “Io so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo”. Un punto di partenza questo importante anche per Heidegger quando tratterà del rapporto fra tempo ed esserci e che diventerà per il filosofo tedesco oggetto di conferenze e lezioni universitarie. Ma il tempo è sfuggevole anche perché esistono più tempi che da un punto di vista cognitivo possono sovrapporsi e intrecciarsi.

Del resto, il tempo non è un oggetto ma qualcosa che ha a che fare con la percezione e soprattutto con il modo in cui concettualizziamo il mondo, con cui vi entriamo dentro. Dunque il tempo è qualcosa che è aperto alle interpretazioni ma è anche il modo in cui una cultura costruisce il suo profilo, si autodefinisce. In questo senso è un costrutto sociale, in quanto permette che i diversi appartenenti a una cultura riescano a organizzare e a coordinare fra loro una serie di comportamenti e di attività. Naturalmente questo non significa dire che il tempo non esiste o è un’illusione, è invece vero che gli esseri umani hanno creato dei sistemi di significato per poterlo circoscrivere, sistemi che sono diversi da cultura a cultura e che è difficile tradurre. Questa non coincidenza, questa intraducibilità nell’intendere il tempo è particolarmente problematica quando confrontiamo lingue e culture lontane, sia nello spazio che nel tempo.

I greci, ad esempio, avevano costruito una mappa concettuale piuttosto sofisticata con tempi diversi che riusciamo a interpretare con qualche sfasamento di senso. Questa mappa prevede cinque termini: chronos, ora, eniautos, kairos e aion.

Chronos, che assomiglia così tanto al dio Kronos, il divoratore dei figli, da realizzare fin dall’antichità un gioco di parole sul tempo che ci divora, è il tempo misurabile, che si svolge dal passato verso il futuro. È il tempo rettilineo che non può tornate indietro, che ha un inizio e una fine. Un concetto ben chiaro in Anassimandro quando scrive: “…da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità poiché essi pagano l’un l’altro le pene e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (DK, f.1). Aristotele nel IV libro della Fisica dirà, in maniera non dissimile da Agostino, che chronos non esiste perché da una parte è stato ma non è mentre dall’altra è ma non è ancora. Insomma è qualcosa che non riusciamo a prendere perché legato all’istante, al trascorrere della cronologia.

Ora è la stagione, quindi il tempo maturo. Ora è la buona stagione: per seminare, per mettersi in cammino, per fare la guerra. A ora si affianca eniautos, termine usato per indicare l’anno e poi nel greco biblico qualunque intervallo di tempo. Eniautos è un tempo circolare, non rettilineo, è il tempo ciclico che ritorna, come le foglie nel bosco e le stirpi degli uomini, dirà Omero nell’Iliade.

Un quarto termine è kairos, il momento opportuno. Da un punto di vista etimologico significa “misura”, ma è il tempo pieno che marca una cronologia. È il tempo che ha significato, che è sorprendente e può determinare le nostre esistenze. È per questa sua caratteristica che nei Vangeli acquista il significato di tempo in cui agisce Dio, in cui non è più chronos, il tempo fatto di minuti, ore, giorni e anni a definire le nostre vite, ma il tempo di Cristo.

Il quinto termine è aion, normalmente tradotto con “eternità” ma con un’evoluzione semantica durata secoli che ha raccolto significati molto diversi. Ad esempio in Omero più che un valore temporale indica la forza vitale e dunque la morte è appunto una perdita di aion. Dopo Omero il valore vitalistico viene perduto passando a indicare la durata dell’esistenza. Questi sono anche i due significati che troviamo nella filosofia prima di Platone. Ma è proprio con quest’ultimo che cambia tutto, perché sarà lui il primo ad opporre chronos ad aion pensando il secondo come eternità e il primo come sua immagine. È solo sullo sfondo dell’aion, dell’eterno che ciascun momento del chronos, ciascun istante può prendere luce, può diventare vero e avere un senso.

“Nell’istante … il tempo si sorprende nella sua fattura. Ma dal momento che è diventato usuale affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza, una tale follia ha coinciso con l’uccidere la parola destino — con cui la parola Dio si identifica. E soltanto se c’è un destino l’istante ha corposità, è valore, è ‘funzione’ di qualcosa”. (L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1994).

Fonte: Stefano Arduini | IlSussidiario.net

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