Inizio anni 50. Mio padre, sottotenente della Julia in Russia, era stato fra gli ufficiali al seguito di un generale: un uomo austero, severo, abituato a comandare. Quel generale, fatto prigioniero dai sovietici, solo dopo alcuni anni fu liberato. Venne a Milano, e volle incontrare mio padre.
La città messa in ginocchio dalle bombe già risorgeva: si alzavano palazzi, si aprivano negozi, nelle vetrine la merce abbondante. Il generale, per il quale la fame e gli stenti erano appena finiti, camminava con mio padre dietro al Duomo, in una bella mattina di fine marzo. Le donne già vestite con cura, i bambini con le guance paffute, le prime Fiat per strada: di tutto il vecchio soldato si meravigliava. Si sedettero ai tavolini di un bar. Dietro al banco c’erano delle belle arance. Il generale chiese di poterne avere una. Se ne restò diversi secondi con l’arancia color oro sospesa fra le dita, e la guardava incantato. Semplicemente un’arancia matura e dolce, nel tepore di una città in pace, in primavera. Mio padre, pure reduce dal Don, rimase in silenzio.
Il vecchio generale ora guardava il mondo con un’assoluta gratitudine. Avrei voluto poter tramandare uno sguardo così ai miei figli. Ma ogni generazione che nasce ricomincia da capo: e non sa vedere il dono, che è in un’arancia color oro.
Fonte: Marina CORRADI | Avvenire.it