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Perché in Italia i poveri non possono andare nella scuola che vogliono?

La storia d’Italia, lo sappiamo, è intessuta di contraddizioni. Da un Risorgimento che non è andato proprio come abbiamo studiato sui libri di storia, a un cammino di unificazione-piemontesizzazione che, se pure ha uniformato velocemente l’apparato dello Stato, ha anche provocato un malcontento diffuso e radicato dei cittadini nei confronti del Governo; si arriva poi al compromesso giolittiano che sfocia nel Ventennio, per giungere ai cinquant’anni di governo democristiano cancellato da Tangentopoli. Fino alle contraddizioni di oggi. Ovviamente troviamo le eccellenze: si pensi solo alla Costituzione repubblicana, la più perfetta tra le carte costituzionali moderne, secondo il parere di giuristi insigni, non solo italiani.

Si ritorna però, anche su questo fronte, nel campo delle contraddizioni: la Costituzione garantisce al cittadino italiano il diritto alla libertà di scelta educativa e, sulla carta (L.62/2000), un genitore può scegliere la buona scuola pubblica che desidera, statale o paritaria. A seguire della Costituzione Italiana: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, articolo 26, afferma che i genitori «hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai loro figli». Stesso concetto dall’Unesco (1966), e dalla Comunità europea (1984). Ma in Italia il cittadino povero deve pagare, quindi non è libero. La scuola pubblica paritaria – solo in Italia (e in Grecia) – ha un costo troppo alto per le tasche dei poveri: tasse per lo Stato e retta per la scuola. La Costituzione – su questo punto – è lettera morta. La legge 62/2000 afferma giustamente che il sistema scolastico italiano è costituito da scuole pubbliche statali e da scuole pubbliche paritarie, perché “pubblico” non è sinonimo di “statale”. L’Ospedale San Raffaele è pubblico, ma non è statale. Il cittadino paga un ticket e si cura dove vuole. Ma il cittadino povero non può scegliere dove educare il proprio figlio.

Due i richiami fatti all’Italia da parte dell’Unione Europea: flatus vocis. Eppure nella laicissima Francia, dove lo Stato paga gli insegnanti delle scuole paritarie come quelli delle scuole statali, le rette sono bassissime, a motivo dei finanziamenti ricevuti anche dalle amministrazioni locali. In Italia: ogni studente della scuola pubblica statale riceve (cioè costa al contribuente) circa 7.000,00 euro all’anno; lo studente della scuola pubblica paritaria primaria riceve circa euro 450,00. Quello della pubblica paritaria secondaria di I e II grado costa al contribuente statale 50,00 euro all’anno: si potrebbero devolvere alle opere buone dello Stato. Si tratta in tutto di un milione di studenti: quanto costerebbero se defluissero tutti nella sola scuola pubblica statale? Sette miliardi di euro all’anno. In uno Stato totalitario.

Legittima domanda: ma tutti quei soldi spesi per la scuola pubblica statale portano al miglioramento dell’apprendimento? Risposta: secondo i test Pisa 2015, l’Italia si colloca al 23° posto per le abilità scientifiche e al 24° posto per le abilità di lettura. Mala gestione delle risorse dello Stato, dunque, a spese del contribuente. La mancanza di libertà e di confronto, e quindi il regime di monopolio nella cultura – e nell’educazione -, non pagano mai.

In questa situazione, l’unica alternativa possibile alla paralisi del sistema scolastico pubblico tutto, statale e non statale, è la definizione di un costo standard per alunno, sulla base di dati reali, presi da esempi virtuosi di gestione. Le famiglie, sulla base della definizione del costo standard, ricevano dallo Stato un voucher spendibile o per la scuola pubblica statale o per la scuola pubblica paritaria. Che lo Stato sia garante della libertà dei cittadini di educare i propri figli nella buona scuola pubblica che desiderano per loro. Le scuole pubbliche di qualità – statali e paritarie – saranno scelte; le altre lo saranno solo in caso di miglioramento della loro qualità. Forse, in tal modo, non sarà necessario reintrodurre il servizio militare “per educare i figli, visto che i genitori non lo fanno”; probabilmente, il livello culturale e comportamentale del cittadino italiano si eleverà oltre l’aggressione ai docenti e ai medici nelle corsie ospedaliere e oltre gli insulti al microfono, da parte del personale di bordo, in un mezzo pubblico pagato dai contribuenti. E forse anche la classe politica ne trarrà giovamento.

Fonte: Anna Monia ALFIERI | Tempi.it

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