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Impegno in politica da cattolico. Il tempo della fatica e del «proprio meglio»

Caro direttore, ho letto con attenzione e sofferenza la riflessione su cattolici e impegno politico, pubblicata sui “Avvenire” di domenica 1 ottobre, che Giorgio Campanini

Caro direttore,
ho letto con attenzione e sofferenza la riflessione su cattolici e impegno politico, pubblicata sui “Avvenire” di domenica 1 ottobre, che Giorgio Campanini (L’intervento del vescovo SImoni parte uno / parte due) ha sviluppato inserendosi nel dibattito aperto da un doppio intervento del vescovo emerito di Prato Gastone Simoni. Con attenzione, perché se non fossi stato educato da cattolico non avrei risposto “sì” alle circostanze che nel corso degli anni mi hanno chiamato a un impegno diretto in politica, giunto fino alla elezione alla Camera nel 2001. Con sofferenza perché sperimento da molti anni la solitudine connessa a questo impegno e vedo che questo tipo di “servizio” non viene proposto come uno degli orizzonti possibili nei quali spendere i propri talenti, anzi. Questo è il punto, centrato dalla domanda di Campanini: «In quale misura la comunità cristiana nelle sue varie espressioni si è impegnata, da vent’anni a questa parte, per far crescere l’amore e il senso di responsabilità nei confronti della città?».

La mia risposta è che la questione è stata rimossa per paura di dividere le comunità. Un tempo, la tendenziale unità nella Democrazia Cristiana facilitava le cose, perché “conteneva” le diversità che pure sono sempre esistite nel mondo cattolico. Per dirlo in breve, Sturzo non è Dossetti. Ma queste differenze, prima, erano “diluite” dentro un unico corpo politico. I parroci potevano dunque promuovere il fare politica o presentare alla comunità singoli esponenti politici Dc senza problemi, perché c’era, appunto, una tendenziale unità. Dal 1994 in poi, la fine della Dc e il nuovo bipolarismo hanno reso i pastori timorosi di portare conflitti e lacerazioni nella comunità. Si è scelto di eludere la questione.

Nel “migliore” dei casi le parrocchie hanno scelto da che parte stare. Nella mia, per fare un esempio, essere di Forza Italia non andava bene. In quella confinante invece non andava bene essere con il centrosinistra. Così la scelta per tanti è stata quella di mettere da parte l’impegno politico. Per la mia esperienza, l’unica eccezione erano le volte in cui si discutevano leggi aventi a che fare con i grandi temi che riguardano l’umano. Su questi temi si ricomponeva in Parlamento una unità valoriale capace di dialogare anche con una parte almeno del mondo laico: questa unità ritrovata consentiva di tornare a parlare di politica nelle parrocchie senza problemi di schieramento partitico. I temi eticamente sensibili ricompattavano i cattolici. In questa legislatura è venuta meno anche questa opportunità. Infatti l’unità politica sui “valori non negoziabili” è rimasta “confinata”, a parte poche eccezioni, tra noi esponenti di partiti di centro e di centrodestra, come si è visto nel dibattito su unioni civili e testamento biologico.

Di conseguenza sembra venuta meno anche l’ultima occasione che consentiva di parlare di politica nelle parrocchie senza paura di accendere conflitti. Che fare, allora? Ne ragioniamo in un libro a più voci appena uscito, dal titolo “Servono ancora i cattolici in politica?”. Lo abbiamo scritto con colleghe e colleghi con i quali abbiamo condiviso l’ultima battaglia alla Camera contro la legge sul testamento biologico. Chi vorrà, leggerà. Personalmente, a breve, non vedo vie di uscita. La mia attenzione alla politica è nata in parrocchia, frutto di conferenze, proiezioni di film, mobilitazione per elezioni e referendum. Una educazione che nel 1989 mi ha spinto a fondare con alcuni amici il centro culturale “Il Cortile”, dedicato ad approfondire la Dottrina sociale della Chiesa.

Questo percorso mi ha preparato a rispondere positivamente alle imprevedibili circostanze che mi hanno chiamato dal 1993 a un impegno diretto in politica. Sono modalità che non torneranno più, il “cambiamento d’epoca” non fa sconti e poi il bipolarismo è diventato addirittura tripolarismo (e più…). Rimane la testimonianza personale, comunicata attraverso pensieri, parole (anche via social media) e opere in Parlamento e sul territorio. Non è molto, ma neppure poco, perché ciascuno di noi è tenuto a fare del proprio meglio, nelle condizioni date, secondo la propria storia e sensibilità. Come diceva il poeta Holderlin «non siamo chiamati ad abbattere l’albero ma a essere trovati con l’ascia in mano». Sperando che altri raccolgano l’ascia quando cesserà il nostro turno di lavoro.

Fonte:Antonio Palmieri | Avvenire.it

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