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«Sola, in quella fredda stanza verde: così ho abortito»

Aveva 15 anni, Daniela, quando rimase incinta e interruppe la gravidanza. Poi, la rivincita della vita: il lavoro, quattro figli, l’incontro con don Alberto. «Mi sono riconciliata con mia figlia che non ho fatto nascere e l’ho lasciata correre nelle braccia di Dio». Ora aiuta donne in difficoltà. Il Papa ha scritto la lettera apostolica portando nel cuore persone come lei.

Ci vogliono sguardi e mani. Ci vogliono lacrime. Ci vuole il coraggio di chiamare le cose per nome per provare a dire l’indicibile. E per riconciliarsi con la propria storia e con quel figlio mai nato che scava nella coscienza.

Daniela racconta la sua storia, seduta al tavolo della sua cucina. Non è il suo nome – «perché ci sono ancora delle persone a cui potrei fare del male raccontando ciò che è successo» – ma quello che avrebbe voluto dare a sua figlia: una bimba di cinque mesi abortita su suggerimento di un medico in una delle cliniche della capitale. «C’era già la 194 e tutti sapevano quello che succedeva lì, ma ci sono voluti anni per farla chiudere».

Daniela aveva 15 anni e tanti sogni nel cassetto, un principe che sembrava azzurro, adulto e sicuro, che la corteggiava, un amore forte come solo sanno esserlo quelli che sbocciano nell’adolescenza. Poi il corpo che si trasforma senza capire bene perché e la scoperta di aspettare un figlio inatteso. La gioia che si trasforma in paura e angoscia quando quel principe, all’improvviso caduto da cavallo, nega senza rimorsi. La solitudine, il vagare per strada, un commerciante-angelo che ascolta e capisce. La aiuta chiamando i suoi genitori e spiegando. «Mio padre parlò con quel ragazzo, ma lui negò le sue responsabilità. E lì inizio il dramma dei miei genitori. Dramma che oggi che sono madre comprendo». La decisione di chi non sa che fare e cerca aiuto nelle persone che forse ne sanno di più. Ma arriva l’aiuto sbagliato, il solo che sembra possibile in quelle circostanze. L’indicazione di una clinica, il ricovero, la fuga e poi di nuovo la clinica, «in una stanza verde che non dimenticherò mai. Il verde, per me, è il colore dell’aborto». Le infermiere che parlano delle loro cose, che ridono perché hanno trasformato in routine il dolore delle altre. «Non esistono parole che possono racchiudere il dramma di chi ha abortito, ne possiamo trovare tante, ma quello che hai dentro non lo puoi esprimere con niente. È qualcosa di tuo che ti appartiene profondamente e che gli altri non potranno mai capire fino in fondo per quanto tu lo possa spiegare, declinare, trasmettere. Perché quando hai consapevolezza di quello che è successo si scatena un dramma indicibile. La sindrome post-abortiva, che ancora non è riconosciuta, è qualcosa di terribile».

Per Daniela sono passati più di 30 anni da quella tragedia. C’è stato un matrimonio, c’è un lavoro, ci sono quattro figli – «che sono la mia gioia più grande» – e un nipotino. C’è il suo impegno nel Centro di aiuto alla vita per prevenire il dramma e accogliere chi lo ha vissuto. «Bisogna avere a cuore la donna che ha abortito perché quando si sceglie di abortire si ha un problema grande e si pensa di affrontarlo così. Dopo ti senti sollevata per aver risolto il problema, e puoi continuare a negare per anni quello che hai dentro. Puoi convincerti che era la soluzione migliore, ma arriva un momento della vita in cui fai i conti con te stessa e lì inizia il dramma della donna che ha abortito».

Usa tante volte la parola accoglienza, Daniela. L’accoglienza di chi sa sostenerti prima, «perché se i miei genitori avessero incontrato la persona giusta oggi io quel figlio ce l’avrei, l’avrei tenuto in braccio e i miei genitori non avrebbero vissuto, anche loro, quello che hanno vissuto dopo. Perché il dramma dell’aborto non riguarda solo la donna che abortisce, ma la sindrome post-abortiva colpisce anche le persone che ti hanno aiutato in questo». Ma anche l’accoglienza di chi sa aiutarti dopo a trovare una strada di riconciliazione. «Mi sono confessata tante volte, ma non mi sentivo mai meglio. Mi sentivo indegna. E facevo sempre un sogno: la mano di mia figlia che si allungava da una finestra in alto. La mia che andava verso di lei e lei che scompariva.

Finché non ho incontrato don Alberto. Con lui ho fatto un percorso lungo fino ad arrivare a riconciliarmi con mia figlia mai nata e ad avere il coraggio di lasciarla andare nelle braccia del Padre». Fino ad avere il coraggio di parlare con le donne in difficoltà, per sostenerle e accoglierle, «perché non fanno quasi mai il colloquio di dissuasione previsto dalla 194 e, anzi, vengono quasi incoraggiate ad abortire. E non solo con la 194, ma anche con la pillola del giorno dopo, con i farmaci che si possono comprare su Internet. C’è una cultura generale che rende facile l’aborto, ma senza mettere in guardia le donne dal dramma che dovranno affrontare». Una società che sa lavarsi le mani lasciando sul cuore delle madri i segni indelebili del dolore.

Fonte: FamigliaCristiana.it

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