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LIBRI – La benedetta tavola dei primi monaci

Anticipiamo in queste colonne alcuni passi del volume “I pranzi dei santi. Pratiche alimentari e ascesi nel monachesimo tardoantico” di Veit Rosenberger, in uscita per Edb (pagine 76, euro 8,50). Nel volume lo storico, docente alle università di Erfurt e di Atlanta ed esperto di storia religiosa nel mondo antico e tardoantico, indaga come la pratica del digiuno e le scelte alimentari abbiano rivestito un’importanza fondamentale per la storia del movimento monastico nella tarda antichità, nonostante la carenza delle fonti materiali e il fatto che cibo e bevande possiedono un significato simbolico non univoco, bensì continuamente rimodulato, anche all’interno di uno stesso contesto culturale e religioso.

Verso il 330 d.C., nel profondo deserto egiziano, si assistette a una scena curiosa. Un uomo molto anziano, che viveva da solo in quel luogo isolato, batteva con un bastone un asino selvatico che stava mangiando i suoi alberi da frutta. L’uomo aveva mantenuto quegli alberi nel corso degli anni con grande difficoltà e adesso l’animale minacciava di rovinare tutto. Per il vecchio, però, non si trattava di un evento irreparabile. Egli infatti digiunava e aveva piantato gli alberi solo per i pochi ospiti che andavano a trovarlo.

L’asceta aveva a disposizione un’arma più potente del bastone, perché conosceva la Bibbia a memoria. Si rivolse quindi all’asino con una citazione biblica: «Perché mieti quello che non hai seminato?». In tal modo fece sì che l’invasore risparmiasse il suo giardino. Lo strano uomo protagonista della storia è Antonio, che viene considerato il primo monaco dalla tradizione cristiana. Questo breve aneddoto ci mostra come in tutte le società il cibo e le bevande non servono soltanto per alleviare la fame e la sete. La loro origine, la loro rarità, la loro quantità, il loro costo, la loro preparazione, che può implicare anche l’uccisione di un animale – solo per chiamare in causa alcuni fattori –, rivestono uno specifico significato.

Non di rado tali significati possono variare anche per gruppi diversi che appartengono a una stessa società. Probabilmente si può affermare che gli alimenti non sono mai «semplici»: il cibo e le bevande rientrano nel campo della comunicazione non verbale e possono indicare una certa appartenenza sociale. Se si tiene conto del fatto che nell’antichità gran parte della popolazione viveva ai limiti della sussistenza e aveva a disposizione soltanto una scelta limitata di alimenti, variabile a seconda della stagione e delle riserve, il consumo ostentato da parte delle élite era un’esplicita dichiarazione di intenti.

Gli eroi omerici banchettavano con la carne sacrificale, sottolineando così la loro prosperità. Chi, nella Grecia classica del V secolo a.C., consumava pesce costoso era sospettato di aspirare alla tirannide: sembrava infatti farsi pubblicità, spendendo denaro nello stile di un monarca. Gli imperatori romani, che offrivano ai loro ospiti lingue di pavone e altre leccornie, dimostravano in tal modo le loro possibilità finanziarie e politiche. D’altra parte, la moderazione nel man- giare e nel bere poteva anche assumere una connotazione positiva: gli spartani erano celebri per la loro zuppa nera, e i romani della fine del periodo repubblicano celebravano la frugalità degli antenati e dei loro pasti a base di cereali poveri.

Gli autori cristiani della tarda antichità svilupparono un discorso completamente nuovo sul mangiare e sul bere, che con i monaci assunse una dinamica specifica. Il cibo in abbondanza, come sostiene Severino di Norico (410-482 circa), secondo la Vita scritta da Eugippio nel 500, portava alla caduta dell’anima. Per Severino il digiuno, così come la preghiera e l’elemosina, era parte di una più ampia strategia contro le incursioni dei barbari. Chi viveva in modo pio, infatti, poteva contare sempre sull’aiuto di Dio.

Quando, però, si provano a confrontare le notizie sul digiuno che provengono dalla tarda antichità, si scopre che le pratiche erano tutt’altro che uniformi. La tendenza al disciplinamento è presente alle origini del movimento monastico. Pacomio, che è considerato il fondatore dei primi monasteri in Egitto, stabilì la sua regola monastica prima della metà del IV secolo, a cui seguirono numerose altre regolamentazioni della vita dei monaci, che con il concilio di Calcedonia del 451 raggiunsero il proprio culmine. Al contempo si assiste a esperimenti sempre diversi, finalizzati a ottenere nuovi spazi di manovra.

Questi processi di negoziazione erano condotti nei modi più disparati: potevano verificarsi tra i membri di una comunità monastica, potevano essere imposti dai vescovi, potevano essere affermati nei concili attraverso decisioni contrastate o potevano essere il risultato di un rifiuto consapevole del mainstream cattolico da parte di un gruppo specifico. In quest’ultimo caso, si correva il pericolo di essere bollati come eretici. Il mangiare e il bere erano degli strumenti per sottolineare la gamma delle scelte possibili e l’individualità degli asceti. Come abbiamo visto, emerge un processo d’individualizzazione: asceti come Antonio digiunavano a modo loro.

Però, quando molti monaci vivevano assieme, si poteva innescare un processo di sovvertimento delle regole, accompagnato da una potenziale de-individualizzazione. Da parte loro, le regole monastiche limitavano il campo di azione, ma non imponevano un ascetismo radicale, come mostra la Regola di san Benedetto. Nella storia del monachesimo cristiano si alternano così fasi d’individualizzazione e fasi di socializzazione.

Ogni asceta famoso della nuova generazione era in grado di sviluppare una propria pratica di digiuno. In questa dinamica può essere inserito anche Francesco d’Assisi, che introdusse nel suo ordine monastico la povertà radicale, che risaliva già ad Antonio. E proprio come Antonio , anche Francesco dovette lottare contro un asino. Chiamò infatti il suo corpo «fratello asino » perché era scontroso e perché desiderava sempre bere e mangiare.

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